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R Recensione

7/10

Movie Star Junkies

Shadow Of A Rose

Non faccio fatica ad immaginare che per un musicista in piena attività l’identificazione con la locuzione “band di culto”, oltre che vagamente mortificante (i risultati migliori, sembra lasciato intendere, sono ormai alle spalle) ed opprimente (l’attività recente tende ad essere sempre sminuita se comparata coi fasti di una non meglio precisata età d’oro) non sia troppo lontana da un coccodrillo in piena regola. Per quest’uso sconsiderato ed irresponsabile del vocabolario mi scuso anticipatamente, perché, a ben vedere, proprio non saprei come altro descrivere lo status attuale dei Movie Star Junkies: un accrocchio di disperati (nel senso buono del termine…) posseduti dagli effluvi alchemici della Mole, i cui esordi tracimavano di meteorico prometeismo e il cui curriculum, disco dopo disco, concerto dopo concerto, ha oggi cementificato una reputazione inscalfibile di macchine da guerra, dirette eredi delle più sudicie e mesmerizzanti tradizioni (goth) r’n’r a cavallo tra oceani e decenni. La prova provata? Dai che ti ridai, non si avevano notizie studio del quintetto torinese dal buon “Evil Moods” del 2014: un ingombrante vuoto di sei anni ammantato di chiacchiericcio, che solo la caparbietà della piccola label parigina Teenage Menopause (Xiu Xiu, Cheveu, Jessica 93…) è riuscita a spezzare nel tripudio generale, pubblicando su vinile i frutti di una session cuneese del 2018.

Ed arrivi allora, il giorno della gloria, perché ascoltare all’opera i meccanismi perfettamente oliati di “Shadow Of A Rose” ci mette in condizione di comprendere che, se la mancanza della ciurma di Stefano Isaia si era fatta così acuta, era anche e soprattutto perché ancora nessuno, nel genere, possiede una qualità di scrittura a loro paragonabile. È sufficiente il trittico d’apertura, che squaderna in varie declinazioni i cavalli di battaglia dei Junkies: il passo galoppante impresso alla linea di basso della title track (un trascinante garage-blues ad un passo dall’isterica degenerazione noise), la delicata melodia di “Song Of The Silent Snow” (tra West Coast e flower punk australiano) e il claudicante crescendo acido del velenoso singolo “East End Serenade”. Di diritto, tre fra i migliori brani del canzoniere del gruppo: e il fatto, concreto, è che non sarebbe poi blasfemia se qualcuno avesse da obiettare che nel disco ci sono anche episodi migliori – per esempio, l’autistico noir-funk mononota, dai perforanti ostinati chitarristici, di “Your Beauty Tortures”: l’urticante rito voudun, con contrappunti psichedelici di synth degni del side project La Piramide Di Sangue, di “Opium”; il rozzo testacoda elettrico di “Blind”; la lunga semiballata dylaniana degli eterni penultimi (qualora a Dylan piacessero mai i Bad Seeds) di “Woman Undone”.

Capita come sempre di leggere che quelli di “Shadow Of A Rose” – così come i suoi predecessori prima di lui, in particolar modo “Melville” (2008) e “A Poison Tree” (2010) – sono pezzi nati per mandare in frantumi le assi di un palco, per incendiare l’atmosfera live e impregnarne gli umori di alcool e sudore. Siamo perfettamente d’accordo. Ciò che andrebbe aggiunto, semmai, è che questa scaletta fa un figurone anche su supporto fisico e che, se esistono ancora dei ritorni con un senso, quello dei Movie Star Junkies è senza dubbio tra i più sensati di tutti. Band di culto, ma il culto continua.

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