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R Recensione

6,5/10

Cup

Hiccup

Ode ai dischi tutti uguali. Quelli registrati in bassissima fedeltà, suonati di corsa e cantati di malavoglia. Quelli che in cinquanta canzoni esibiscono sì e no cinque riff. Quelli che con la profondità e la longevità ci si puliscono il culo. Quelli che di cambiare mood e passo non ne vogliono proprio sapere. Quelli che la botta dell’hangover rimane indifferente alle stagioni. Ode, allora, a “Hiccup”, disco breve ed urticante come solo un singhiozzo inaspettato può essere: ode al suo mentore, Cup, l’alter ego tuttofare (si fa per dire) di Tym Wojcik, natali a Houston e base nel Queens. Nel periodo storico in cui l’estrosità e la prolificità di Ty Segall, Mikal Cronin e King Gizzard & The Lizard Wizard dettano la linea del nuovo garage a trazione internazionale, Wojcik torna ai fondamentali (?): al primo Wavves, anzi no, a Jay Reatard, anzi no, allo shitgaze, all’indie rock degli anni ’90 o addirittura a Jandek. Insomma, ai dischi tutti uguali. Tanto che “Hiccup” è – “tecnicamente”, ci tiene a puntualizzare la press release, ché le parole sono importanti – addirittura la settima uscita lunga di Wojcik: con questa presentazione, possiamo solo immaginarci le precedenti.

Dodici pezzi in suppergiù venti minuti, il più lungo (“Mindreader”, 3:22) un monocorde post-punk à la Half Japanese che a un certo punto non sa bene come andare avanti e si incastra in uno stolido loop di effettistica, il più breve (“Yr Freaking Out”, 1:09) una fracassonata garage biascicata con insospettabile presenza d’animo. La recensione potrebbe anche finire qui, ma fallirebbe nell’intercettare il senso di “Hiccup”: che è sì un disco tutto uguale, ma tutto uguale nel suo personalissimo mo(n)do, guidato da melodie sbilenche strimpellate alla bell’e meglio su un’acustica (“Apparition”), da scazzati anthem sottratti alla cartoteca del ’77 (“Foggy Mind”), da sporchi episodi college tenuti in piedi con lo scotch (“Caustic Creeper”), da sgraziate slackerate scritte guardicchiando con mezzo occhio aperto uno slasher (“Shallow Pool”), da ripoff pixiesiani di tutto rispetto (“Little Hiccup”), da costruzioni armoniche che vanno perennemente per i fatti loro (“The Dream”) e persino dal granuloso giro di accordi elettrici di “Life Isn’t So Bad (Things Could Be Worse)” sardonicamente appoggiato su un tappeto di percussioni homemade.

Solo appena qualche anno fa, dischi tutti uguali come questo non li avremmo degnati di uno sguardo. Oggi, invece, la congiuntura è dalla loro parte. Don’t stop hiccupping, buddy!

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