R Recensione

8/10

Thee Oh Sees

Help

Questo è un altro esempio di come certi musicisti scrivano un capitolo nella storia della musica e nessuno se ne accorga. Nei Thee Oh Sees milita John Dwyer (voce, chitarra): ora a molti può non dir nulla il suo nome, ma per chi è a conoscenza di cosa sia successo nell'ultimo decennio in California, non può fare altro che correre nel primo negozio di dischi e cercare subito quest'album e naturalmente comperarlo ad occhi chiusi.

Comunque per chi non lo conoscesse si può fare un breve riassunto del suo passato di "spacca timpani": il qui citato John Dwyer suonò la chitarra in bands noise rock come Coachwhips, The Hospitals, Yikes, Burmese. Ne volete ancora? Ok! Pink and Brown e Landed, tutte devote a un suono che affonda le proprie radici nel garage punk e nel noise rock più aspro e rumoroso, dove gli strumenti e i timpani vengono triturati con suoni sporchi e potenti; sarebbe bello soffermarsi su ogni singola band di questo folle personaggio, ma non basterebbe una sola pagina per spiegarne l'importanza o raccontare solamente la storia di ognuna, quindi bando alla ciance e parliamo dell'ultimo capolavoro di quest'uomo.

Completano la band la bellissima Brigid Dawson (voce), Petey Dammit (chitarra) e Mike Shoun (batteria); se c'é una cosa che adoro in una band è la voce femminile che, come in questo caso, decide e solidifica il suono. Per chi fosse abituato a caos e ondate di feedback qui non li troverà sicuramente: la band suona un robusto garage che scivola tra le braccia di un folk incazzato e drogato, accarezzato da una psichedelia alla Electric Prunes o The 13th Floor Elevators, quindi fine anni sessanta per intenderci. Si parte con il primo pezzo, "Enemy Destruct", compatto ed anche il più adatto a fare da apripista: è un crescere di muri fatto da chitarre distorte e batteria ben percossa, le due voci si uniscono perfettamente, tra un ululato di Dwyer e un gorgoglio della Dawson, ricordando tanto gli Intelligence (con cui hanno diviso un fantastico 12'' uscito per la Amazing records).

Chiusa anche questa parentesi, la canzone scorre via facendo spazio a "Ruby Go Home", un intro di chitarra simpatico molto anni sessanta, ma quasi tutta la canzone (come l'intero album) guarda indietro al sixties sound più scanzonato. A sentirla sembrerebbe presa da una b-side dei Monks, ma molto più melodica e meno acerba, con una batteria secca e una seconda chitarra dalle sonorità molto tonde e gommose. In "Meat Step Lively" le due chitarre amoreggiano, si lasciano per poi cercarsi nuovamente e infine tornare insieme; la voce di Dwyer si fa più cattiva e amara, ma viene addolcita da quella di miss Brigid. Molto apprezzabile la batteria stomp, tanto che sembra di ascoltare i The Gruesomes che coverizzano i Cramps: wow!

La quarta traccia, "A Flag in the Court", senza ombra di dubbio è la canzone pop dell'album delicata nell'esecuzione e nel cantato. Idem per "The Turn Around" (pezzo strumentale) che inizia e finisce in un lampo, senza avere il tempo di accorgersi che non c'è voce ed ecco arrivare nello stesso lampo alla sesta canzone, "Can You See?", che sembra proposta come un sorbetto a metà portata tra la carne e il pesce, dai sapori psych pop molto californiani (di metà sessanta naturalmente): la femminilità della Dawson si fa sentire, lontana e soave come non mai, fa sognare dolci carezze su un verde prato. Ma a quanto pare Dwyer decide che non è tempo di essere troppo sdolcinati ed è "Rainbow" a riportarci con i piedi per terra: un minuto e quarantasei di garage rock suonato come si deve, batteria pestata e non troppo impegnativa, cantilene e chitarre graffianti con tanto di mini assolo (in distorsione) a spezzare, per poi far ripartire le danze sfrenate iniziali. "Go Meet the Seed" è la traccia più lunga dell'intero album, quasi sei minuti, che non si dimostrano mai pesanti.

La batteria si porta avanti a dare un ritmo che non fa cessare il dondolio della mia testa avanti e indietro, le chitarre padroneggiano la situazione molto bene, scandiscono i ritmi, inizialmente saltellanti, seguite dalle voci che giocano tra loro, tra falsetti e cori notturni; sul finale le chitarre cominciano a dare segno di squilibrio, vaneggiando in distorsioni (delay e riverbero) che riportano alla mente i vecchi gruppi di John Dwyer, veramente una bella boccata di rumori che non dispiacciono mai. Dopo sei minuti di psichedelia newyorkese ecco presentarsi un'altra perla di agitato garage punk, "I Can't Get No": Dwyer inizia con un "what?what? aaaaahhh!", non c'è meglio di un bell'urlo per risvegliare gli animi tristi e addormentati dediti a Morfeo. Sembra uscita dal box di Nuggets (del geniale pazzoide Lenny Kaye): chitarre che ricordano il suono tagliente delle lamiere, la batteria sempre a scandire tempi mai troppo pacati. Sì è vero, il riff è quello classico garage che si può sentire in qualunque altra band, ma è la sfrontatezza e la cazzoneria dell'esecuzione che la rende una bella canzone e diversa dalle altre.

Dopo un bel 1-2-3-4 prende vita "Soda St. #1", canzone dai ritmi veloci e un cantato decisamente più melodico e rivolto a un pop più orecchiabile, ma mai dalle sonorità troppo commerciali. Con "Destroyed Fortress Reappears" si è quasi chiusa questa saga, che per ora non ha mai creato sonnolenza o voglia di cambiare disco, sempre costante in un bel suono sporco e trascinante. La canzone si scaglia contro un telo di psichedelia che avvolge e trascina dentro qualche fantasioso quadro astratto di rara bellezza.

Purtroppo spunta l'ultima traccia dell'album, a mia insaputa sono entrato in un senso di relax non indifferente e "Peanut Butter Oven" non disturba questa mia quiete, anzi, sembra prepararmi del latte caldo con qualche goccia di Felisol: le chitarre si sciolgono unendosi alla voce di Brigid, la batteria si fa lieve, oltre qualche svirgolata di chitarra il brano segue la sua strada di psych pop song da chiusura. Quello ch'è iniziato come un album pestato e potente muore in braccio a una canzone leggera come un cuscino di piume. Come sempre l'In The Red ha fatto un altro centro e John Dwyer certifica di essere una garanzia in qualsiasi opera lui metta mano e bocca, dalle cose più noise a quelle più pop, ma sempre a bassa fedeltà come lui stesso insegna.

Buon ascolto a tutti. Quando andate dal vostro fornitore di dischi di fiducia entrate e urlate AIUTO! Lui capirà...

V Voti

Voto degli utenti: 7/10 in media su 4 voti.
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target 7/10
REBBY 6/10

C Commenti

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target (ha votato 7 questo disco) alle 14:36 del 10 giugno 2009 ha scritto:

Retrò in modo quasi scientifico, questi Thee Oh Sees: rispetto alle Vivian Girls (sempre lodevolmente In The Red) più Cramps, come dici tu, più rockabilly, più psichedelia in salsa garage rock. E direi, anche, più divertimento (sempre lo-fi), in un'immersione sixties da modernariato museale. Godibilissimi. Il solo di flauto di "Meat step lively" è da trip ipnotizzante: fantastico! Bravo Cig.

Mr. Cigarette Butt, autore, alle 17:10 del 10 giugno 2009 ha scritto:

Grazie!Ora non vedo l'ora di vederli dal vivo in Italia s'è possibile,chi ha potuto farlo(in USA), ha confermato la loro bravura e godibilità..

REBBY (ha votato 6 questo disco) alle 23:34 del 21 giugno 2009 ha scritto:

Non sapessi cos'ho messo nel lettore mi verrebbe da pensare che sto ascoltando una delle tante (ma

tra le migliori) garage-band che popolavano gli

Stati Uniti tra il 1965 e il 1967, alcune delle

quali raccolte nel mitico Nuggets, il cui doppio

vinile custodisco gelosamente. E invece no, sti

giovanotti, che però non son più degli sbarbi,

stanno suonando così, quasi uguale sputati, nel

2009 ( la definizione di "modernariato museale" di Target è fantastica). Beh, gli ho dedicato

volentieri vari ascolti durante questo fine settimana, li ho trovati simpatici e divertenti

ed ho scelto la mia "pepita" (un brano forse

atipico rispetto agli altri): A flag in the court, una sorta di riedizione dei primissimi, ma

issimi, Pink Floyd pre-The piper at the gates of dawn. Ripeto nel loro genere sono bravi, però

anche gli originali o si diedero una mossa,

"andando avanti" o scomparirono ...

Mr. Cigarette Butt, autore, alle 14:24 del 23 giugno 2009 ha scritto:

Ti dirò, se ascolti i vari singoli e split,credo che si stiano già dando da fare per non essere troppo uguali a se stessi, (anche se,non sempre è un male), poi sono fiducioso in Dwyer, per ora non ha fatto un passo falso..staremo a sentire/vedere.

REBBY (ha votato 6 questo disco) alle 19:57 del 23 giugno 2009 ha scritto:

Essere uguali a se stessi è sicuramente un bene

(mai piaciuti i falsi), essere uguali agli altri

(che oltretutto erano così 40 anni prima) per me un po' meno. In parole povere non riesco in

genere ad impazzire per il "modernariato museale"

(grazie Francesco!) soprattutto quando questo

riguarda generi musicali che trovavo già antichi,

pur apprezzandoli, quando io ero adolescente (lo

stesso discorso vale ad esempio per quei folksinger che sembrano il Dylan prima maniera).

Forse è la mia età (sono nato nel '60) che incide

su questa mia convinzione, non so, ma come ho

detto pur apprezzando il disco (sicuramente tra

quelli che più mi sono piaciuti di quelli che ho

ascoltato di questo filone "neo-garage), non riesce ad appassionarmi tanto da farlo diventare

"da ascolti quotidiani". Complimenti sinceri

comunque per la recensione appassionata (le mie

preferite).

hokusai (ha votato 9 questo disco) alle 10:41 del 14 giugno 2010 ha scritto:

merveilleux

consiglio vivamente anche:

The Cool Death of Island Raiders

Thee Hounds of Foggy Notion (dvd)

e l' ultimissimo Warm Slime