Lou Reed
Rock'n'Roll Animal
Il notissimo musicista newyorkese Lewis Allan Reed si ritrova da molto tempo in qua, tra gli altri meriti, quello di essere titolare di uno dei più riusciti ed influenti album dal vivo di classic rock (arena rock, hard rock… insomma rock smagliante e trascinante, virtuoso ed estetizzante), qual è in effetti ampiamente considerata l’opera in questione.
Il che, dato il soggetto, è una vera stranezza, un ossimoro, quasi un assurdo.
Ma è proprio così: il poeta maledetto, l’ebreo eroinomane bisessuale e anfetaminico, cantore del disagio e della depravazione e delle bassezze della Grande Mela, il chitarrista mani-di-pietra, stonato e afono nel 1974 girava in tournée per gli States con un gruppo che era una vera bomba, compatto, fluido, creativo tanto da rivoltare le sue passate filastrocche Velvetiane come calzini, dilatandole a potenti anthem da stadio, accattivanti e irresistibili.
La cosa durò poco con Reed cha un certo punto mandò tutti a casa e preferì proseguire quel giro di concerti accompagnato da un pugno di scalzacani qualsiasi (assumendosi pure l’onere degli “assoli” di chitarra, contento lui…): dal punto di vista della coerenza personale e del coraggio nulla da eccepire, da quello musicale una vera sciagura.
Il gruppo gliel’aveva messo insieme il produttore Bob Ezrin, innanzitutto per suonare sul precedente album (di studio) “Berlin”, dalle cui atmosfere massimamente funeree e decadenti nulla traspare della futura potenza, organizzazione e gioia di suonare che inonderà lo stesso manipolo di musicisti una volta trasferitisi sul palco, sera dopo sera sempre meglio fino alla mazzata finale di Lou, estraneo a tutto questo sfoggio strumentale e bisognoso (o invidioso?) di un appeal più cantautoriale e asciutto.
Che tipo Lou Reed! Gli approntano una specie di macchina da guerra con un suono della madonna, coesa come un commando, adatta a fare concertoni in giro per il mondo e per anni davanti a trentamila persone a botta… e lui la liquida dopo tre mesi! Recidivo oltretutto: un paio d’anni prima David Bowie, innamorato di Andy Warhol e di tutto ciò che girava intorno a lui e quindi anche di Lou, gli aveva prodotto il primo disco di successo (“Transformer”) e dato qualche bella dritta su come si fa a cavalcare l’onda glam del momento (tipo la chioma corta ossigenata e il trucco pesante, sfoggiati ancora in questo disco) e lui che fa subito dopo? Fa l’artista a tutto tondo e sfoga la sua tossicodipendenza narrando (in “Berlin”, appunto) la nerissima storia suicida di un’eroinomane alla quale vengono sottratti i figli.
Immagino i coccoloni venuti ai suoi discografici del tempo: dopo il trendy e rivelatorio “Transformer” eccoti il deprimente (seppur fascinoso, beninteso) “Berlin”, dopo lo spettacolare “Rock’n’Roll Animal” a seguire il piatto (musicalmente) “Coney Island Baby”, suonato con quei famosi scalzacani indegni eredi dei fior di musicisti che operano in questo disco.
E ancora, dopo “Lou Reed Live”, assemblato con i (nobili) scarti di “Rock’n’Roll Animal” e quindi per un verso notevole, per l’altro in pratica nato morto, ecco che Lou si vendica con l’inascoltabile, irritante “Metal Machine Music” fatto di solo rumore… ribadisco, che coraggio Lou Reed!
Concentrandosi allora sul grande evento musicale racchiuso in questi solchi, si può ribadire come il quintetto alle spalle del nostro si diverta maggiormente e dia il meglio del meglio nelle rivisitazioni del repertorio Velvet Underground: i tre accordi messi in croce delle canzoncine (dal punto di vista musicale) del seminale gruppo newyorchese si gonfiano sino a diventare riffoni titanici, capaci di far andare fuori di zucca tutti i presenti e convertendo buona parte dell’acidità di progenie in rotondità e pomposità hard rock, universalmente accessibile anche a quelli che se ne sbattono della poetica del malessere metropolitano e vogliono scuotere le chiappe o sentire delle grandi chitarre. Ecco allora perché il “giro” sagomato di “Sweet Jane” (questo qui e certo non quello uguale ma asfittico sull’album “Loaded” dei Velvet) se la giochi, oggi come sempre, con fratellini tipo “Smoke on the Water”, “Kashmir”, “Roadhouse Blues” o chi altri volete per il titolo di riff del secolo o altre simili ludiche classificazioni.
Rimanendo su “Sweet Jane” ed a proposito della sua celeberrima “Intro” qui la gran parte del merito si deve al chitarrista principale Steve Hunter: spacciata spesso come mirabile esempio di duello di chitarre, in realtà solo nelle prime battute vede i due axemen andare insieme l’uno in armonia all’altro. Ben presto è Hunter ad ergersi da solista, col compare Dick Wagner a staccare l’elegante e geniale successione di accordi, venendo al proscenio solo per poche battute prima che tutto precipiti nell’immortale riff.
Stessa nobile sorte per la chiusura dell’album “Rock’n’Roll”, dilatata a dismisura da un lungo inserto centrale con una dottissima disquisizione di Wagner e del bassista indiano Prakash John, (questi un vero portento dotato di drive micidiale e corposo suono) in tema di funky rock. All’inizio e nell’apoteosi finale ci pensa invece il grande Steve Hunter a tenere allegro Reed (che rosica di sicuro…) con le sue grasse, sonore, melodiche, rocchettare svisate.
Una bella cavalcata pre-punk si rivela anche l’anfetaminica “White Light/White Heat” che vede Reed tirar fuori tutto quello che ha nella strozza per tentar di sovrastare il treno in corsa che si ritrova intorno. Al contrario “Heroin” è grandiosamente strascicata, simulando appropriatamente col suo atmosferico crescendo strumentale l’iniezione di una dose della droga e l’insorgere del suo artificiale, pericoloso benessere.
Il resto dei brani (uno nell’LP, tre nella riedizione del CD) è tratto da “Berlin” e, come già accennato, v’è una leggera sensazione che i musicisti facciano un po’ il compitino, si divertano di meno, si adattino professionalmente ai toni del tutto grevi e cupi delle storie raccontate, bofonchiate, recitate da Lou, qui molto più protagonista coi suoi testi terribili e la sua conturbante voce dark. Al proscenio sale allora il tastierista Ray Colcord, delegato ad orchestrare con drammatici rivolti la profonda infelicità della protagonista Caroline.
Ormai sono passati così tanti anni… l’icona di Lou Reed come “animale del rock’n’roll” fu al tempo pompata a lungo, suo malgrado e senza ritegno e tenne duro parecchio prima di decadere definitivamente a colpi di dischi e concerti che niente avevano di animalesco e di rock’n’roll. Per chi non è interessato a questo artista (e probabilmente a un certo modo di intendere la musica e la sua capacità di essere arte, comunicazione, cultura, estetica e poetica) questo è l’unico disco d’interesse del piccoletto newyorchese (insieme al gemello “Lou Reed Live”, se si vuole). Per Lou probabilmente è esattamente il contrario: se c’è un disco che non rifarebbe, sarebbe proprio questo. Perché è lontano da sé, dalle sue corde oppure perché i musicisti gli mangiavano in testa? Maschio o femmina? Bisex.
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