Sparks
Kimono My House
Ecco come può diventare un classico un disco scritto da un folle dai baffi hitleriani e dallo sguardo da maniaco, cantato da suo fratello, suonato da una band messa in piedi grazie a Melody Maker. Un disco con una copertina spiazzante, dal titolo assurdo, un disco registrato non senza approssimazioni (chitarra troppo bassa, per dirne una), un disco ridicolmente perfetto.
I fratelli Mael di Los Angeles nel 1974 hanno alle spalle già due dischi, ma la loro anarchica tendenza a ricominciare tutto daccapo a ogni album, a partire dai componenti della band e dai produttori, non riesce a dare loro una collocazione comprensibile. Con “Kimono My House” gli Sparks diventano questo: glam rock allo stato selvaggio, pop operistico, Zappa elevato alla seconda e fatto melodia, vaudeville rock, psichedelia cabarettistica, genio incontrollato.
I testi di Ron, umoristici senza mai essere stupidi, appaiono a tratti entusiasmanti, soprattutto messi in bocca al cantato grottesco e modulabile di Russell, che si presta attorialmente a qualsiasi ruolo: in “Here In Heaven” è un morto suicida che rimprovera la propria ragazza, che aveva promesso di ammazzarsi con lui, senza poi averlo fatto; in “Equator” è uomo e donna, e sfrutta tutte le qualità del suo falsetto inimitabile; in “Talent Is An Asset” descrive le attitudini del giovane Einstein.
La musica è travolgente: la chitarra di Adrian Fisher passa da assoli hard-core a rifiniture melodiche minimali, il basso di Martin Gordon è potente e febbrile, la batteria di Dinky Diamond è semplicemente selvaggia, le tastiere di Ron alternano sonorità orchestrali a nenie filastroccanti e giocose, distendono sotto ogni brano un assurdo e labirintico reticolo di note. L’effetto è stordente, pur nella semplicità e nella grezzezza del materiale usato. Basti ascoltare il finale ossessivo di “Equator” (vero pezzo di genio del disco). Alla fine del brano, dopo sovrapposizioni folli, gli elementi si riducono a tre: sembrano la voce di una donna isterica, un sax e un coro femminile, ma in realtà sono la voce di Russell, il mellotron di Ron e la voce di Russell velocizzata. Voilà. Con il contorno degli altri strumenti sembra di ascoltare un blues rock da caffé concerto anni trenta.
“Falling In Love With Myself Again” tocca un’intensità di delirio musicale che sfiora l’imbarazzo: l’attacco, sinistro e spettrale, è seguito da un’incongrua apertura valzereggiante. Sembra Zappa calato in una sagra bavarese. “Talent Is An Asset”, con lo xilofono a rifare il verso alla voce sopra un ritmo vorticoso, è trascinante. “Here In Heaven” ha un’atmosfera melodrammatica dietro una linea vocale da ottovolante.
Il fatto è che il camp degli Sparks non pregiudica l’ascoltabilità dei loro pezzi: messe da parte le singole follie, “Kimono My House” è un disco rock terribilmente riuscito. E lo dicono l’atmosfera più orecchiabile di “Amateur Hour”, l’aria crucca di “Hasta Manana Monsieur” (e il melting pot è completo), la tastiera da manicomio di “This Town Ain’t Big Enough For Both of Us”, la canzone degli Sparks per eccellenza: una chitarra squarciante, una voce bizantina, una batteria possente. Rifatta con i Faith No More a più di vent’anni di distanza ha dimostrato di nuovo la sua genialità.
Gli Sparks hanno fatto tantissimo oltre a questo disco, forse pure troppo: altri venti (!) album, toccando i generi più disparati, dall’elettronica con Moroder a un rock americano stile Beach Boys, dall’euro-dance negli anni novanta alla classica applicata al pop. Ma “Kimono My House” resta il loro lascito più duraturo: Queen, Devo, The Darkness, Franz Ferdinand, Futureheads partono da qui. Basti solo dire che questo disco convinse Morissey, parole sue, a darsi alla carriera musicale.
Lunga vita a “Kimono My House”, dunque. Senza la sua stimolante insania si vivrebbe peggio.
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