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R Recensione

6,5/10

The Winstons

Smith

Parlare o invitare alla (ri)scoperta di un disco attraverso la sua esecuzione live non è qualcosa che amo fare, ma nel caso di “Smith”, atteso secondo full length per il supergruppo The Winstons, si è resa cartina al tornasole indispensabile ancor prima che complementare. Curiosa ed inconsueta la breve storia dell’inedito triumvirato Gabrielli-Dell’Era-Gitto: un solo lavoro in studio (AMS Records, 2016), forse anche sulla spinta dei nomi coinvolti, era stato sufficiente per risvegliare gli inconfessabili e forse atavici pruriti psych-prog di una platea che esitava a disseppellire certi numi tutelari senza il conforto di una benedizione autoriale. Da lì in poi, meritato consenso critico e di pubblico a parte, un temporeggiare senza fine: un trascurabile 7” a corredo del disco madre (“Golden Brown / Black Shopping Bag”), una testimonianza live catturata a Roma, i bizzarri rifacimenti dei Quadri di un’esposizione musorgskijani (AMS Records, 2018) e del floydiano “The Piper At The Gates Of Dawn”. Una maledizione del sophomore finalmente infranta, oggi, con un disco alquanto atipico nella struttura e nella composizione, che spiazza a più riprese e che, inizialmente, non si fa esattamente amare. Da qui la necessità, per evitare giudizi affrettati, di testare questi nuovi brani dal vivo, misurarne tenuta e profondità, confrontarli con la versione studio.

Sarà la versatilità d’approccio (ognuno mette le mani su almeno due strumenti), l’esperienza accumulata in decenni di palchi o il notevole bagaglio tecnico ma, pur nella ristrettezza di personale e nella stratificazione di certe trame, sul palco i tre fratelli Winston sanno riempire ogni vuoto e proporre un set tanto articolato quanto compatto, irresistibilmente pop nella disposizione melodica e sicuramente progressivo (con qualche strizzata d’occhio alla free form psichedelica) nell’esposizione. Quel che più stupisce, in positivo, è l’inconsistenza della cesura tra vecchi e nuovi brani: tutto, pur di per sé distinguibile, convive in un unico organismo armonico. È una differenza sostanziale con le impressioni lasciate dai primi ascolti di “Smith”, caratterizzato piuttosto proprio per una certa discontinuità rispetto all’esordio omonimo (anche il giocattoloso fonosimbolismo nipponico di “Sintagma”, vicino a cose come “カンガルー目 (Diprotodon)”, si slabbra in mille rivoli acidi) e conseguentemente assimilabile ad un puzzle le cui singole tessere vagano in libertà. Le sovrastrutture si semplificano: gli arrangiamenti, comunque cesellati di fino, aderiscono con più linearità agli scheletri di canzoni asciutte e classicamente impostate, anche se mai scontate nella loro evoluzione – si ascolti il ritornello beatlesiano di “Ghost Town”, preso a schiaffi da un build up hard-beat di tutto rispetto, che fa il paio con i Magnetic Fields mccartneyiani di una “Blind” uscita dal canzoniere del Dell’Era solista, con il guizzante glamabilly di “Not Dosh For Parking Lot” (sul cui sfondo si agitano spettri psichedelici) o con l’elementare sfrontatezza r’n’r dell’ospite Nic Cester in “Rocket Belt”.

Il dettaglio, insomma, c’è ancora, anche se un orecchio meno allenato non lo coglierà immediatamente, con dirette ripercussioni sull’esperienza dell’ascolto, a tratti ancora piuttosto gratificante – spettacolare, per dirne una, lo yè-yè di “Soon Everyday” rovesciato in una fulminea fuga proghedelica, e interessante, per dirne un’altra, il metamorfico Canterbury jazz di “The Blue Traffic Light”, segmentato su un riff pianistico in 5/8 – anche se, questa volta, non privo di incoerenze interne (abbastanza fuori luogo la cover di “Impotence” dei Wilde Flowers, con tanto di omaggio vocale dello sfiatato Richard Sinclair dei Caravan) e talvolta fin troppo esplicito nel suo gioco citazionistico (nella prima parte della zappiana “Tamarind Smile / Apple Pie” si aspetta da un momento all’altro di veder comparire al microfono il sibilante Barrett di “Power R. Toc H.”). È come se, nel lisciare e nell’addomesticare, si procedesse per sprazzi e per singoli traccianti, lasciando all’ascoltatore il compito di colmare i vuoti e ricostruire il quadro complessivo: è una strategia che, come la struttura che la ispira, funziona al meglio solo a corrente alternata.

Fascinoso e curioso come il precedente, ma con un peccato aggiuntivo di discontinuità che, ci auguriamo, potrà venire riassorbito da un futuro terzo capitolo.

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