Bauhaus
In The Flat Field
Quando si parla di gothic o di dark-wave vengono alla mente, prima di tutto, tre nomi storici: Joy Division, Cure e Bauhaus. Senza nulla togliere ad altre importantissime formazioni del movimento sono stati questi i tre mostri sacri del genere, durante quello splendido periodo di rinnovamento musicale che si pose tra il finire dei 70s e l’inizio degli 80s.
Nucleo costitutivo del gruppo londinese i fratelli Haskins (il batterista Kevin e il bassista David Jay) e il chitarrista Daniel Ash, che dopo una serie di esperienze amatoriali di scarsa importanza ( Craze , Submerged Tenth ) fanno il botto completando la formazione con Peter Murphy: uno spilungone dall’aspetto cadaverico e inquietantemente magro che in breve tempo diventò la personalità trainante del gruppo che, ispirandosi al movimento artistico tedesco inizialmente prese il nome di Bauhaus 1919. Nel maggio 1979, dopo aver tolto il “ 1919 ” i Bauhaus raggiungono la notorietà grazie al singolo Bela Lugosi’s Dead, una cavalcata tanto epica quanto lugubre e funerea che consacrò il gruppo come una delle rivelazioni del panorama new wave e il brano come un inno del gothic nella stessa proporzione di Stairway to heaven per l’hard rock o God save the queen per il punk.
Il successo di Bela Lugosi’s Dead procurò un solido contratto con la Beggars Banquet, con cui finalmente nell’ottobre 1980 pubblicarono il loro lp d’esordio.
La copertina del disco, una foto artistica in bianco e nero rappresentante un nudo maschile, fa subito capire che oltre a un gusto morboso per il proibito aleggia una certa irriverenza vitalistica di fondo, caratteristica che differenzierà notevolmente i Bauhaus dai propri compagni di reparto.
In effetti il gruppo, sia dal punto di vista sonoro che caratteriale, prende molto di più da gruppi come Gang of Four e Pil, e pure il fitto intreccio di chitarre che li accomuna ai Joy Division va ricercato nell’influenza primordiale esercitata dai Velvet Underground di cui si accentua tra l’altro notevolmente il lato glam. Insomma più che di dark-gothic sarebbe in realtà più opportuno parlare forse (almeno per questo primo album) di post punk con tendenze verso il gothic.
D’altronde sarebbe riduttivo cercare di delimitare un disco che consente molti approcci diversi e che merita un’analisi approfondita alla quale ci apprestiamo.
Double Dare apre le danze con un riff primordiale distorto accompagnato da una pulsazione che ricorderà agli intenditori qualche riflesso dei Pink Floyd (ci riferiamo in particolare a Echoes). La batteria circolare e il riff diabolico creano un’atmosfera da sabba infernale in cui Murphy con il suo tono lugubre si eleva a Minosse della situazione. Si nota subito come il frontman si differenzi da altre icone dark come Curtis e Smith: il suo cantato è sì decadente, ma mai laconico o lamentoso. Piuttosto prevalgono una forte carica glam patinata e una potente rabbia vitalistica (da qui la “doppia sfida” del brano), elementi che fanno pensare a un incrocio tra David Bowie e Iggy Pop.
In the flat field è una scarica epilettica forte di una batteria frenetica, di escursioni chitarristiche acide e lisergiche piene di dissonanze, distorsioni e effetti di ogni tipo e di un basso ipnotico, il tutto in una tipica impostazione post punk. Il testo mostra elementi di malessere (“I do get bored, I get bored In the flat field”) dovuti a un certo spaesamento (“Find me out this labyrinth place”) e alla volontà di tornare sui binari giusti della vita (Assist me to walk away in sin […] Transfer me to that solid plain).
God in an alcove è un altro pezzo tirato in cui assume posizione di rilievo un marcato basso che accompagna le solite chitarre malate e irregolari di Ash e il cantato anarchico di Murphy, che mostra il suo eclettismo passando da toni istrionici a urla quasi isteriche fino a tornare a timbri vocali più lugubri e possenti. È questa sua capacità di non prendersi troppo sul serio che rende più malleabile la musica dei Bauhaus e mantiene un equilibrio perfetto tra spirito dissacratorio e dramma.
“We're going down to the kamikazi dive Like insects in a Chinese lantern now “ è il messaggio critico molto pessimista di Dive, punk anarchico con cui si chiude l’iniziale poker di brani al fulmicotone.
Spy in the cab infatti rallenta notevolmente i toni entrando in una dimensione malinconica più piatta. Di fatto è il primo brano davvero dark del disco con la sua lenta andatura dominata dalla passione travolgente di Murphy che racconta un possibile percorso verso la pazzia attraverso una banale ossessione di essere costantemente spiati. La batteria e la chitarra alienante non vengono però messi completamente in disparte se si considera lo splendido convulso finale rumoristico quasi noise.
Small talk stinks, brano a cui dovranno molto i successivi Depeche Mode, è una delle pecche dell’album: la personalità di Murphy e un riff accattivante non riescono a far passare in secondo piano un ritornello un po’ imbarazzante e in generale una struttura senza nerbo.
St.Vitus Dance è un ritorno ai ritmi frenetici di God in an alcove, con il suo ritmo eccitato carico di distorsioni e la sua batteria avvolgente e interminabile. Chitarra e basso sono frammentati e spezzettati, in un brano in cui Murphy mostra ancora una volta la sua irriverenza terminando con uno scimmiottare grottesco che inevitabilmente riporta alla mente l’Iggy Pop di Fun House.
Stigmata Martyr offre l’ormai ben nota cupola di suoni ma in versione più gothic: basso ammaliante e voce di nuovo profonda e spettrale mentre riff infernali portano spiritualmente all’ennesima danza eccitante e demoniaca, il tutto mentre vengono evocate macabre immagini della Passione (“In a crucifiction ecstasy Lying cross chequed in agony Stigmata bleed continuously”) con tanto di preghiera latina biascicata in latino (“In nomine patri et filii et spiriti sanctum”) tanto profana quanto sacrilega.
Nerves è il gioiello che suggella il disco: rintocchi funebri, rumori di oggetti metallici vari (a ricordare I remember nothing dei Joy Division), diverse schitarrate e note singole buttate lì a casaccio quasi come fosse un soundcheck. L’insieme crea un’atmosfera inquietante piena d’angoscia al termine della quale parte la solita splendida batteria post punk che sembra non poter portare in nessuno luogo e che invece trascina una tastiera straniante e essenziali riff spettrali sui quali troneggia ancora una volta il cantato epico di un Murphy di nuovo decadente (“Sense of serenity is shattered in the glint of splintered glass”) e magniloquente. Il finale schizofrenico è però ancora una volta sintomatico dello spirito della band e del suo leader. L’accelerazione che chiude il brano di fatto rovina il clima di epicità e conferma la tendenza a non volersi prendere eccessivamente sul serio, neanche nelle composizioni più drammatiche.
Aldilà delle etichette rimane un album straripante e eccitante, inizio di una splendida carriera (anche se breve) di un gruppo sentito fin da subito come fondamentale. E noi non possiamo esimerci dall’essere d’accordo.
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