Chelsea Wolfe
Pain is Beauty
La grandezza si misura dal modo in cui l'acrobata cammina sulla fune sottile, lassù in cima, e di continuo ripropone il medesimo numero, impeccabile, ma colorandolo di una suspense diversa. Di una tempistica, diversa. Colorandolo di qualcosa, che è semplicemente diverso, pur essendo consueto. La grandezza è il modo in cui l'acrobata si veste da funambolo, e vola, come dotato di ali, e poi ciondola sull'altalena del trapezio, spensierato, come fosse su una piccola altalena di campagna, appesa a un albero, completando un altro numero. È sempre lo stesso, l'acrobata, ma si rimescola nella sua arte. La rende mirabilmente unica, ogni volta.
La grandezza è la mano che impasta una materia identica, creando però sagome inedite, ma con sembianze note, conosciute: basterebbe guardarle meglio, e scoprire che provengono dalle stesse dita, come quando si ravvisa che un figlio somiglia al padre, in un rinnovo incredibile di cromosomi. La grandezza è nuotare in solchi nuovi di mare, svagare, ad ampie bracciate, poi tornare a sguazzare in quelle acque familiari - le acque di prima, del passato - plasmando meravigliosi cerchi attorno.
La grandezza è tutto questo. La grandezza è Chelsea Wolfe. Che cammina in equilibrio sulla fune sottile, lassù in cima, che oscilla leggiadra su altalene, che impasta argilla, che nuota e galleggia. Che sforna un altro disco, mentre l'estate muore. Ed è grande, perché sa rimescolarsi con ciò che (musicalmente) è stata, dopo averne preso le distanze. E in ciò che è stata si rinnova, si eleva, si rende diversa pur rimanendo se stessa.
In Pain is Beauty rispolvera appena le chitarre acustiche, grezze: un folk che era stato prassi nel disco precedente (Reins, almeno inizialmente, Lone, e nellautentico miracolo, Theyll Clap When Youre Gone). E poi riveste labito nero, è in fondo la solita doom lady, si decora con guglie, e impasta il dark al gotico. Si siede al piano, profondo e dondolante (The Waves Have Come), impasta synth e beat che erano propri di Apokalypsis, esplorando dunque i campi dellelettronica, già conosciuti (The Warden).
Quella di Chelsea rimane una musica intimamente spirituale, eterea, ed è un clima creato dalle tastiere solenni (Sick, con la conclusione di uneco disperata) o dalla voce che pare derivi da grotte remote, ancestrali (House of Metal, dove tornano gli archi mai abbandonati). Indugia nel carattere abrasivo (Feral Love, quasi primitiva nella sua violenza bestiale), nello spessore del basso (We Hit a Wall), nelle sonorità sbilenche e acide del passato (Destruction Makes the World Burn Brighter, un po ridondante nelle modulazioni e negli ululati, e Kings, cupa e distorta).
Le parole non si distinguono, non si vedono, perché si fanno suono e musica anchesse, in un amalgama pieno e colto. La voce è un elettrocardiogramma mai piatto, un cuore che batte, si abbassa e si alza, variando con ricami, partendo da una mera linea sottile. Una voce mai incolore e annoiata, che dice dellamore, e del dolore che è bellezza, è catarsi e rigenerazione e vita. Ed è tutto raccontato con grandezza, tra altalene, argilla e mare. Perché Chelsea è ciò che era, e ciò che è: cioè grande, tanto grande.
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