The Cure
Bloodflowers
Dopo lusica del bel singolo Wrong Number (scritto, cantato e suonato dal solo Robert Smith con l'ausilio del solo Reeves Gabriels alla chitarra solista) i Cure iniziano a registrare le canzoni per il nuovo disco che seguono lo stile elettronico dell'ultimo brano, giunti per' a meta' registrazioni Smith scrive "Out of This World" che fa repentinamente rinsavire (?) il lunatico leader, decidendo di buttare tutto nel cestino e ricominciare da zero (scorie delle vecchie registrazioni riaffioreranno con "Possession" - brutta bonus track giapponese e australiana di "Bloodflowers" e la bella e sottovalutata "Spilt Milk" resa disponibile solo per il download).
Il nuovo disco ricomunicia quindi da "Out of This World" facendo riappropriare la band del proprio sound melanconico ormai marchio di fabbrica; Smith, inoltre si sta avvicionando ai fatidici 40 anni e torna in uno stato simile al periodo "Disintegration" facendogli nascere l'idea di partorire la terza parte di una ipotetica trilogia iniziata con "Pornography" proseguita con "Disintegration" e che sarebbe dovuta terminare con il nuovo album, posto anche come pietra tombale della band.
Il disco pesca molto dallo stile del bestseller del 1989 con lunghe suite strumentali, ma questa volta non ci sono piu' muri di tastiere, ma di chitarre che mai come ora hanno suonato cosi' rock (strepitoso il solo, ad opera dello stesso Smith, sulla titletrack), il cantato e' sofferto come mai era accaduto negli ultimi 10 anni, ma l'atmosfera creata dal disco non e' dark, ma decadente; dalla prima all'ultima nota si respira un senso di impotenza e sconforto nei confronti dello scorrerere impietoso del tempo che si manifesta inesorabilmente nel fisico di Smith che in questo periodo appare gonfio e grasso come mai prima d'ora (voci mai confermate hanno parlato anche di problemi di salute, ma questo appare probabile visto il miglioramento negli anni successivi).
L'album non offre spunti pop ne' nella forma (solo "there is no if..." ha un minutaggio radiofonico) ne' nella sostanza ("Maybe Someday" e' l'unica traccia con un piglio pop, ma non spendibile come singolo per la volonta' di non editarla facendole perdere la sua essenza in favore di qualche passaggio radiofonico) e per la prima volta dai tempi di "Three Imaginary Boys" i Cure non estraggono alcun singolo; in compenso il disco offre nomerosi nuovi classici come le gia' citate "Out of This World" e "Maybe Someday", la stupenda title track, la maestosa "Watching Me Fall" o "The Loudest Sound" dai tocchi piacevolmente elettronici e caratterizzata da un cantato sussurratto, ma dannatamente drammatico.
La vena compositiva appare davvero ritrovata rispetto al precedente "Wild Mood Swings" anche se i detrattori della band criticheranno la scelta di affidarsi a brani perlopiu' lenti e dalle stesse atmosfere, ma la scelta di creare un sound compatto e monotematico era una degli obbiettivi della band e nasce anche dagli ascolti intensivi di dischi come "Happy Songs for Happy People" degli scozzesi Mogwaii tanto amati dal vecchio Bob.
Ultimo disco annunciato dalla band, ultimo grande tour mondiale e ultimo album da contratto con la Fiction Records dell'amico Chris Perry, tutto preanninciava la fine che sembrava venire suggellata in maniera egregia con i Trilogy concert dove la band ha suonato per intero ed in successione cronologica "Pornography", "Disintegration" e "Bloodflowers".
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