Mad Season
Above
Il mondo del rock è un dorato ologramma che proietta e rifrange le pulsioni ribellistiche della società di massa sullo schermo di quel drive-in ad orario continuato che è l’industria culturale.
Una pericolosa, lussuosa trincea in cui la strategia degli eserciti coinvolti si misura in termini di marce forzate lungo tournèe di proporzioni omeriche, parate adulatorie spinte fino al parossismo divistico più degradante, bombardamenti a tappeto di eccessi chimici, fisici e psicologici.
Premetto che a)codeste mie riflessioni lasceranno piuttosto indifferenti tutti coloro che pervicacemente coltivano il proprio orticello borghese, richiamando altresì le sollecite e barocche maledizioni di chi è appena rientrato a casa dopo otto ore di precario lavoro in fabbrica e che b) qua si rifugge peggio della peste da pietismi escatologici e comodi moralismi su un’anonima gioventù bruciata in stile Lucignolo, è bene in fine ricordare che z) certe considerazioni di ordine sociologico ci interessano nella misura in cui s’intarsiano nell’ordito dell’opera d’arte entrando a far parte dell’aura da cui traspira l’eterea grandezza della musica stessa.
E che musica! Musica rock nella sua essenza più pura, liberamente insufflata in una grana sonora spessa e spontanea, musica composta e suonata per il piacere di stare insieme e lenire l’animo dalle reciproche ferite, al di fuori della moda del momento, degli ingranaggi taglienti della domanda e dell’offerta, musica che scandisce uno struggente elogio all’amor fou e all’amicizia virile.
La storia che mi accingo a raccontare (come direbbe il caro Lucarelli, quello dei tre che non gioca a calcio...) parla di un chitarrista ricco, affermato e disilluso, Mike Mc Cready, allora come oggi mirabile solista nei Pearl Jam e di un bassista semi-sconosciuto nativo di Chicago, John Philip Saunders.
I due si incontrano, del tutto casualmente, in un centro per la riabilitazione di alcolisti e tossicodipendenti a Minneapolis, si fiutano, se la intendono e così, tra una noiosa seduta d’autocoscienza e una terapia di gruppo, inevitabilmente, i nostri si ritirano in privato a suonare e comporre musica;da lì a tirare dentro un vecchio amico che da quella clinica entra ed esce da anni il passo è breve: Layne Staley, il Lautreamont eroinomane degli Alice in Chains, non si limita ad intonare le proprie sillogi sulle basi che gli fanno ascoltare ma procura loro anche un batterista, Barrett Martin degli Screaming Trees, la qual cosa, naturalmente, finisce per stuzzicare l’interesse del leader del gruppo di quest’ultimo, Mark Lanegan.
Grazie a un pugno di valorosi nasce dunque l’idea del progetto che verrà chiamato dapprima Drugs Addicts And Alcoholics (coerente con le premesse, non vi pare?), quindi Gacey Bunch ed infine Mad Season. Per un po’ provano e suonano al Crocodile Cafè di Seattle, famoso locale gestito dalla moglie di Peter Buck dei R.e.m., quando la Columbia, avidamente attratta dai nomi eccellenti coinvolti nell’operazione, offre loro un contratto per un disco, intitolato Above, che uscirà nell’aprile del 1995.
Già con Wake Up, prima ansa nel corto alveo dell’opera, i quattro “compagni di sbronze” dimostrano come l’ispirazione sia la profilassi più efficace per drenare la “merda” dai loro cervelli intossicati: echi di Van Morrison e dei Traffic si mescolano a giocose reminescenze di Child inTime (specie nell’uso discreto e avvolgente dell’Hammond), mentre Staley innalza al cielo il primo inno all’amore sacro e maledetto per una dark lady chiamata eroina.
River of Deceit, traccia numero tre, la doppia inoculando nella venefica linfa 70’s/grunge del gruppo il dolce siero di una ballata le cui cuspidi di disperazione melodica sono brunite da un inebriante, nostalgico trip acustico abilmente concertato dal jingle-jangle della chitarra di Mc Cready. Nella parte centrale, poi, il climax è raggiunto in virtù di un trittico di portenti, in sequenza: I’m Above, Artificial Red e Lifeless Dead. La prima è una specie di efflorescenza del male che segna l’ingresso in scena del livido baritono di Lanegan a fare da controcanto al lavorio acuto e tormentoso della voce di Staley, un “lento” scorbutico e paludoso, melodico al tempo stesso, ricco com’è di richiami a Pearl Jam e Screaming Trees, in cui i deliziosi e minuti ricami di Mc Cready preludono, in mezzo a un crescendo affannoso e stantio, ad un ritornello dinamitardo innescato da uno Staley astioso con la bava alla bocca. Artificial Red, invece, può essere semplicemente descritta come il primo dei due grandi capolavori impressionisti contenuti nel disco: un episodio di magia nera che rievoca lo spirito sulfureo ed epicureo d’un Muddy Waters o d’un Robert Johnson bilanciando un giro blues da manuale pieno di svisate slide e di riverberi bayou.
Staley, in questo caso, più che uno shouter è una lacoontica, letteraria creatura, a metà fra il Faulkner più visionario e il Celine più debosciato, che concepisce il suo ultimo lamento avvinghiato alle lenzuola sudice di un bordello meticcio in Bourbon Street.
Completa la pala tripartita Lifeless Dead con un riff “sabbathiano” (in alcuni punti, assolutamente Snowblind) e un cantato che ci riporta al primo disco degli Alice, narrandoci la lugubre routine d’un amore tossico che si spegne sulla buia soglia che delimita “il confine della notte”.
Dopodichè la a tensione si allenta, le luci si affievoliscono, la campana dell’ultimo giro sovrasta il brusio dell’umanità varia e avariata evocata in I don’t know anything.
Il rumore di fondo che assedia le tempie scava comunque una nicchia tra le sinapsi intorpidite dove il gruppo può incastonare la seconda, ultima e inestimabile gemma di questo disco: ritmica caraibica baciata dal tinnio d’uno xilofono invisibile, giro di basso morbido e rotondo che sembra scolpito nell’ambra, poesia di ombre sfocate e visi familiari intravisti nel bianco dormiveglia d’un sonno etilico, Lanegan e Staley che scambiano un ultimo brindisi rimboccandosi il bicchiere a vicenda, tutto questo è Long Gone Day. La tregua è meritata e dopotutto un’altro giorno è alle spalle. Resta giusto il tempo di “auscultare” il tour de force di Mc Cready in November Hotel, un bruciante bolero per chitarra acustica, forse un po’ slegato dal resto dell’album, che lascia all’effimera All Alone il compito di rompere la quadriglia ponendo così fine all’agro baccanale.
P.S.: Questa è un’opera destinata, purtroppo, a restare figlia unica di madre vedova.Gli impegni dei vari componenti con i rispettivi gruppi di origine rese di fatto impossibile la genesi di un secondo capitolo. E magari è stato meglio così. Baker morirà di overdose nel 1999 e a tre anni di distanza anche Staley lo seguirà. Questa recensione è anche un sincero omaggio postumo a questi due valorosi “volontari” del rock da leggersi in attesa che il grande Magno di cui siamo tutti ospiti faccia definitivamente BOOM ricongiungendoci in un posto migliore. O in un nulla eterno. Il che non sarebbe poi tanto male, a pensarci bene, se almeno ci lasciassero liberi di fluttuare nella musica. Magari.
E magari, perchè no, proprio quella dei Mad Season.
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