Nirvana
Bleach
Ricordate il film “ Easy Rider ”, quando i due protagonisti vengono pestati da quegli ignoranti, grezzi campagnoli? Quelli sono i redneck , spina dorsale dell ’ America più gretta e conservatrice, eterna riserva elettorale dei vari Nixon, Reagan e Bush.
La più retriva e sperduta provincia della sterminata superpotenza. La magnificenza di “ Bleach ” è da ascrivere al contesto in cui il suo autore lo concepì, e nel modo in cui egli interpretò la sua alienazione e le sue angosce.
Kurt Cobain nacque ad Aberdeen, stato di Washington. A cento chilometri da Seattle, in una patria di boscaioli e camionisti col culto delle armi: ambiente redneck per antonomasia. Titoli come “ Floyd the Barber ” o “ Mr.Moustache ” , o l’opprimente contesto educativo di “School” dicono tutto del resto: uno strepitoso campionario di immagini rubate al sottobosco americano più inquietante. Un posto alla Twin Peaks: telefilm che, proprio agli albori del grunge, mostrava al mondo torbidi squarci del North West. L’onda lunga del punk arrivò tardi in quelle lande desolate, in cui una città, Spokane, fu scelta dai sociologi a stelle strisce per studiare una popolazione completamente schiava della pubblicità televisiva. Un deserto culturale in cui la spinta sotterranea del punk fu il magnifico veicolo per far emergere le migliori istanze di una generazione disperata, persa tra l ’ egoismo dei baby boomers e il vuoto sociale reaganiano. Se stilisticamente il grunge fu un amalgama tra punk, psichedelia e metal, il quid che gli avrebbe presto permesso di scardinare gerarchie del rock statunitense e imporsi come ultimo fenomeno in grado di rappresentare un comune denominatore giovanile fu l’espressività punk, grazie a una esplosiva carica comunicativa.
Seicento dollari: tale fu la spesa di registrazione di “Bleach”. Magistralmente guidati dall’asciutta produzione di Jack Endino, Cobain e soci realizzarono tra questi solchi un lavoro paradigmatico del cosiddetto sound di Seattle. Un punk pesante, isterico e lacerante: la perfetta fusione tra ruvide geometrie sabbathiane e anthemiche sferzate di matrice Husker Du. Meno dotato e tecnicamente variegato rispetto ai coevi Soundgarden, Screaming Trees o Melvins, ma col talento lirico di Cobain libero di esprimersi ai massimi livelli, con una felice miscela di brillantezza compositiva e incisività.
Abbondano i classici su “Bleach”. Da un lato i momenti più heavy, quali il furioso e plumbeo incedere di “Negative Creep”, il rifferama tagliente e reiterato di “Sifting”, l’incubo croneberghiano di “Paper Cuts”, le tentazioni hard-psichedeliche infrante nel vortice di “Scoff”. Dall’altro, frammenti in cui il peculiare piglio power punk del ragazzo di Aberdeen comincia a mitigare le tipiche asprezze di matrice Sub Pop: “Blew”, “Love Buzz “ e “Floyd the barber”, esplosivi proiettili caricati da riff abrasivi, da una sezione ritmica pulsante e da quella voce indefinibile, sofferta e rabbiosa. E poi “School” e Mr.moustache”, esplosioni elettriche di prodigiosa sintesi. E soprattutto “About a girl” : l’archetipo delle ballate midtempo cobainiane, foriera di quella intensissima emotività che, sublimandosi in melodie cristalline, avrebbe coagulato impeto, frustrazioni e sogni di milioni di ragazzi su “Nevermind”.
Ma Cobain non era soltanto capace di cristallizzare il suo disagio: prova ne è il brano più sottovalutato dell’album: “Swap meet”. Un uso ipnotico e rallentato del feedback come da lezione Melvins sfocia in tipico refrain infiammabile, con il buon Kurt intento a dipingere la sua “Eleanor rigby”: la storia di una coppia di perdenti al mercatino della domenica, alienati e ormai desensitizzati, ma in cui il disperato grido dell’autore di “Smells like teen spirit” forgia uno scenario salvifico grazie alla musica. Questo è in fondo il lascito principale dei Nirvana: la musica come insostituibile mezzo di consapevolezza ed espulsione del dolore, lenitrice di un malessere esorcizzato da una parola: nevermind.
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