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R Recensione

7,5/10

Blue Cheer

Vincebus Eruptum

These guys may well have been the first true heavy metal band, but what counts here is not whether Leigh Stephens birthed that macho before Mark Farner (both stole it from Hendrix), but that Stephen's sub-sub-sub-sub-Hendrix guitar overdubs stumbled around each other so ineptly they verged on a truly bracing atonality.

Con queste parole un entusiasta Lester Bangs si esprimeva sull'esordio di quell'oscura band di San Francisco che erano i Blue Cheer. Se da un lato però la critica odierna non riconduce più a questo album la nascita dell'heavy metal, genere per il quale si dovranno piuttosto attendere i Black Sabbath di “Iron Man”, è ormai appurato che questo album rappresenta una tappa fondamentale e imprescindibile per la creazione di un certo “heavy sound”.

Non solo: in quest'album si trova già pienamente compiuto quel modo potente e claustrofobico di fare rock che sarà poi chiamato stoner rock; insomma, in qualche maniera i risultati raggiunti da band storiche come Kyuss e Electric Wizard partono proprio da qui.

Chiarisco ulteriormente, a scanso di equivoci in cui (ahimè) spesso casca la critica, che anche pensare a “Vincebus Eruptum” come al punto di partenza dell'hard rock sarebbe un errore: per quello invece si dovranno aspettare i Led Zeppelin di “Communication Breakdown” - le differenze di velocità d'esecuzione ed estremismo vocale sono lampanti.

La formazione era certamente curiosa. Ragazzi appartenenti alla generazione degli hippies (“Blue Cheer” era il nome di un tipo di LSD) che ripudiarono senza esitazione ogni sorta di ottimismo o pacifismo tipici del flower power, nonchè il concetto (carissimo agli hippies) di droga come propulsore per immaginifici viaggi della mente (“Spare Change”, “Interstellar Overdrive”).

Il loro mantra era al contrario semplicissimo: suonare blues a volumi assordanti! Eppure questo facile piano si rivelerà molto più influente nell'ambiente rock di quanto loro stessi potessero immaginare, tanto che diverranno oggetto di culto per intere generazioni di musicisti rock.

Essi erano un trio: Paul Whaley alla batteria formava una buona sezione ritmica con Dickie Peterson, cantante e bassista, ma è più che altro il chitarrista Leigh Stephens a forgiare il suono alla Blue Cheer.

L'album inizia con “Summertime Blues”, che è anche una delle loro canzoni più celebri e uno dei loro capolavori, una cover di Eddie Cochran che nei fatti è tutta un'altra canzone. Le loro maggiori qualità sono già messe in luce, l'innovativa struttura (alternanza dei momenti di pesantezza e poderose cavalcate), la cadenza da zombie con voce ringhiante: un connubio praticamente inedito nel rock. Superfluo ma doveroso spiegare come tutto questo sarà oro colato per i Black Sabbath. Proprio la grinta adolescenziale trasmessa dalla voce di Peterson si rivela sorprendentemente efficace per capeggiare questo manipolo di inguaribili chiassosi, anche se la parte del leone la fa sempre Leigh Stephens, uno dei chitarristi più sottovalutati degli interi anni Sessanta. Partito come uno dei tanti imitatori di Jimi Hendrix, Stephens si differenziò dal genio di Seattle per una tecnica infinitamente meno raffinata e tuttavia decisamente efficace, e per un'attenzione speciale per la pesantezza di riff e assoli. Seminale come pochissimi negli ambienti “duri” del periodo, il suo chitarrismo si sfoga col massimo della personalità nei sette minuti di “Doctor Please”, un tour de force di sfumature metalliche senza precedenti che quasi ridimensiona Tony Iommi.

L'album è tutto un susseguirsi di canzoni granitiche, incendiarie: l'eccellente cover di “Rock Me Baby” (uno dei vertici di Peterson come shouter), il brillante heavy-blues di “Out Of Focus” (nemmeno i Cream dell'eccelsa “Sunshine Of Your Love” raggiungono sonorità del genere), una più tirata “Parchment Farm che è la terza e ultima cover (e senz'altro gente i Motörhead faranno tesoro di canzoni come questa). Il gran finale spetta a “Second Time Around”, il delirio definitivo dell'opera, dove per la prima volta Stephens si lascia davvero andare con le distorsioni - ma proprio per questo tende ad assomigliare molto di più ad Hendrix.

Di primo acchito l'impatto sulla scena rock non fu traumatico quanto avrebbe dovuto, tanto che probabilmente i primi ad accorgersi in maniera palese del muro d'ossidiana di “Vincebus Eruptum” sono i curiosissimi Beatles (!), che (consciamente o meno) li omaggeranno con canzoni come “Yer Blues” ed “Helter Skelter”. In definitiva si tratta di un album storico dove i pregi superano di gran lunga i difetti, nonché una valida opzione per zittire le esercitazioni di violino del figlio del vicino.

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Voto degli utenti: 7,5/10 in media su 2 voti.
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zagor 7,5/10

C Commenti

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zagor (ha votato 7,5 questo disco) alle 21:03 del 25 settembre 2019 ha scritto:

Abbastanza d'accordo con tutto, buona recensione. Aggiungerei i Mudhoney tra i loro epigoni, almeno quelli piu' lenti e pesanti ( di brani come "mudride") rispetto a quelli piu' tipicamente sonics/stoogesiani.