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R Recensione

7/10

Zu

Jhator

Nel celebrato Le otto montagne di Paolo Cognetti, causa trasferta documentaristica del protagonista, si fa esplicita menzione della cosiddetta sepoltura celeste (bya gtor o jhator in originale), uno dei retaggi culturali arcaici più affascinanti e, per certi versi, sinistri del Tibet di oggi. Si tratta di una cerimonia funeraria rituale, che prevede l’esposizione di cadaveri precedentemente scuoiati alla mercé (e agli affilati becchi) di alcuni grandi volatili saprofagi, avvoltoi in primis. Quanto sembra lontanissimo dalla nostra sensibilità moderna è in realtà motivato da una triplice ragione, che unisce assieme praticità, ecologia ed igiene: sacrificando ai rapaci corpi in decomposizione si evita il consumo di suolo (che in Tibet è ancora preziosissimo), non si tagliano inutilmente alberi per erigere costose pire (di alberi ce ne sono pochi e quelli presenti vanno tenuti attentamente da conto) e si previene la diffusione di pericolose epidemie (sull’isola di Cres, d'altro canto, i grifoni ricoprono la medesima funzione “regolatrice” nei confronti delle carcasse di pecore e cervi).

C’è poi – fondamentale – l’aspetto mistico della vicenda. La corporeità viene concettualizzata in primo luogo come (deperibile) transitorietà, fugace estrinsecazione fenomenica di un universo spirituale al contrario incorrotto e incorruttibile che, nel momento della morte fisica, viene nuovamente liberato dalle catene dell’esistenza terrena. Si tratta di suggestioni particolarmente calzanti quando tagliate su misura per un’assoluta mina vagante, gli Zu del 2017: un gruppo imploso su sé stesso all’apice del successo e della forma (“Carboniferous”) e faticosamente risorto dalle proprie ceneri, con un trittico di opere per certi versi insondabili e prive di una coerente direzione comune (l’EP “Goodnight, Civilization”, il teatro delle crudeltà di “The Left Hand Path” con Eugene Robinson, il tutto sommato prevedibile ritorno al formato lungo con “Cortar Todo”). Oggi, che il breve e non indimenticabile interregno di Gabe Serbian ha lasciato posto ad un’altra scelta di rottura (quella del free agent di lusso Tomas Järmyr, recentemente cooptato anche dai Motorpsycho), gli Zu sembrano pronti a ricominciare da capo. Nudi. Spogli. Rinnovati.

La collocazione lessicale più frequente per incasellare la materia organica di “Jhator” è stata, nei mesi passati, “svolta radicale”. Il che fa un po’ sorridere, considerato che la carriera degli Zu viaggia da sempre su (almeno) due corsie parallele: quella per così dire “ufficiale” – che testimonia l’effettiva e graduale evoluzione dal cabaret grandguignolesco di “Bromio” sino al jazzcore luciferino di “Igneo”, dai traslucidi incubi metallici di “Carboniferous” ai muscoli di “Cortar Todo” – ed un’altra, ancora più avventurosa e radicale, popolata di numerosissimi split album a più mani (e che mani: quelle di Eugene Chadbourne, Mats Gustafsson, Xabier Iriondo, Nobukazu Takemura, lo stesso Robinson…). Proprio tra le pieghe di queste avventure collaterali si nascondono (e dovrebbero essere riscoperte) alcune delle sperimentazioni più affascinanti e inusuali mai tentate dal power trio capitolino, il che sicuramente smussa e ridimensiona – almeno in parte – l’effetto-novità di cui è portatore questo nuovo disco. Che una cosa come “Jhator” (prima uscita per House Of Mythology) gli Zu non l’avessero ancora composta è comunque vero: ed è vero sia nella morfologia che, in ultima istanza, nella semantica.

Partiamo dalla forma. Prima di oggi non abbiamo memoria di un approccio così assolutistico e totalizzante alla forma canzone, definitivamente dissolta in due lunghissime suite peana (oltre venti minuti l’una) che fungono da catalizzatrici di decine e decine di input sensoriali. Si tratta di una concezione, se vogliamo, prog ancor prima che intimamente kosmische: ogni facciata dedicata ad una ed una sola composizione, senza ulteriori distrazioni. Il contenuto ne è diretta emanazione. Il numero degli ospiti e dei rispettivi strumenti suonati in “Jhator” è impressionante (il che lo rende, ahinoi, irriproducibile dal vivo), specie per un’opera che si prefigge di regolare la sintassi della sinfonia con correttivi minimalistici: se il contributo della new entry Järmyr è avvertibile in minima parte (la batteria è significativamente presente solo da 16:28 a 20:34 di “Jhator: A Sky Burial” e da 8:55 a 11:24 di “The Dawning Moon Of The Mind”) e Luca Mai abbandona il sax baritono per voci ed elettronica, la ritrovata centralità di Massimo Pupillo (qui a basso, chitarra, piano e synth) viene rinforzata da una serie di interventi polarizzanti, dalla ghironda di Stefano Michelotti alla chitarra e al violoncello di Stefano Pilia (Afterhours, Massimo Volume, In Zaire, Il Sogno Del Marinaio, Immaginisti, 3/4HadBeenEliminated), dal koto di Michiyo Yagi alla tuba e al trombone di Kristoffer Lo, dal violino di Jessica Moss (A Silver Mt. Zion) ai synth aggiunti di David Chalmin (Triple Sun) e Lorenzo Stecconi (Lento).

L’esperienza uditiva è del tutto suggestiva ed emozionante, specialmente quando si riescono a percepire e distinguere tra loro i diversi strati di suono. L’occhio clinico degli Zu sembra essere diventato quello dell’entomologo (per come ogni elemento viene introdotto, coordinato e messo in condizione di comunicare con gli altri) e dell’antropologo (per come il senso ultimo di queste due suite sembri posizionarsi ad un livello concettuale ben superiore del mero godimento estetico). In questo, i primi e gli ultimi minuti di “Jhator: A Sky Burial” – concepita come rivisitazione ed espansione della “A Sky Burial” di “Cortar Todo” – paiono moltiplicare all’infinito i riferimenti etnologici di cui erano disseminati brani come “Goodnight, Civilization” e “The Unseen War” (a loro volta sottilmente debitori di certe evocazioni demartiniane già preconizzate dai Dead Elephant di “Thanatology”), oscillando nel mezzo tra fragorose nubi elettrostatiche e improvvisi ed estatici svuotamenti paesaggistici (i Pink Floyd al tempo del post metal?). Quest’ascensione metafisica, alla stregua di quella dei Sunn O))) di “Monoliths & Dimensions”, non raggiunge però una reale pacificazione: già i cristallini rintocchi sparsi del koto che apre “The Dawning Moon Of The Mind” si deformano e sfaldano attorno a drone distonici, una scarica tensiva costante e pervasiva che, attraverso sezioni di accumulo e rilascio, accompagna il brano verso una conclusione di agghiacciante isolazionismo.

Jhator” – per quello che dice, per come lo dice – sembra un frutto raro d’altri tempi, il parto di un’elaborata e tortuosa riflessione metamusicale come se ne facevano decenni addietro. Possono piacere o meno, ma gli Zu meritano grande rispetto, da parte di tutti.

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