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R Recensione

7/10

Battles

La Di Da Di

Looping is the backward of this band, for sure

[…] repetition is really something interesting to us

We’ve always had this idea of keeping in the yin and yang of the sonic spectre

Come premiére dell’ultimo “La Di Da Di”, Ableton ha realizzato un breve documentario, poco più di un quarto d’ora, seguendo i Battles nel loro studio di registrazione ed osservando, con neutralità, alcune delle fasi cruciali del processo di composizione del disco. È una testimonianza che non esitiamo a definire, per svariate ragioni, essenziale, da affiancare all’attento ascolto del platter. In primo luogo, per la legge dello ius primae noctis: nessuno si era mai spinto così nell’intimo della mente e dell’interazione (variamente psichica, fisica, strumentale) di Dave Konopka, Ian Williams e John Stanier, tre fra i musicisti più importanti ed influenti dell’alt rock americano (contenitore bello largo, per dire tutto e niente allo stesso tempo) degli ultimi vent’anni. Ancora, perché il terzo full length dei Battles è il primo interamente strumentale (EP d’esordio a parte) ed il primo composto, da cima a fondo, in assetto da power trio (“Gloss Drop”, infatti, era stato ridisegnato sul materiale originariamente scritto assieme a Tyondai Braxton): ragione necessaria e sufficiente per drizzare le antenne. Infine, mai come in “La Di Da Di” la cifra del post-moderno sfonda la quarta parete che separa artefice ed oggetto prodotto: si dovrà parlare di spirali anziché di spezzate, di frattali anziché di poligoni, di un suono che – nel maniacale calcolo di ogni minima oscillazione – dà vita a combinazioni stilistiche impreviste, finanche inattese.

I dilemmi esiziali possono trovare un suggerimento lenitivo nella “Luu Le” posta in chiusura di scaletta. È il trionfo del Battles-pensiero, la summa dei loro migliori argomenti: tastiere giocattolo ed arpeggi futuristi a segmentare, svogliatamente, una surreale nenia infarcita di nipponismi, un incrocio genetico fra i carichi-scarichi regolabili di “Tonto” e l’impazzito flipper sonico di “Race: Out” alla luce, tuttavia, delle strobosfere catchy di “Ice Cream” e dei singulti di “Sundome”. “Luu Le” parte di botto, con la casualità di chi manovra glitch da mane a sera, spegnendosi poi in un’immersione di bassi gradatamente inudibili: i Battles che si spogliano del math rock, rinunciano alle angolature arty e si riscoprono, incredibilmente, kraut. Ossessione e ricorsività. C’è un dialogo totale, ancora più ampio che in passato, tra musica suonata nell’immediato e musica che è stata suonata (ma che, non per questo, si può dire appartenente ad un passato oramai archiviato). La scelta di “The Yabba” come singolo trainante dell’album risponde a quest’esigenza: i Battles che parlano con loro stessi, un pastiche electro infestato di loop (gli slide in bottleneck, le arrampicate atonali, pedali e chincaglieria assortita), esasperante bêtise intellettuale che scotomizza gli estremi antitetici analogico-sintetico per aggiornare, di fatto, l’idea di un dancefloor come laboratorio per entomologi, arena di tenzoni (e tensioni) irrisolte.

Dunque: se “Mirrored” era espressione suprema di limitless creativity (con tutti i pro e i contro della faccenda), e “Gloss Drop” poteva considerarsi l’art pop fatto marshmallow, ci prendiamo la responsabilità di definire “La Di Da Di” il capitolo teutonico della favola Battles. Invariate le incognite: una curiosità cannibalistica verso ogni approccio, nessuna preclusione, un umore realizzativo costantemente ludico. Sono tutte caratteristiche applicabili, in massimo grado, anche a “Mirrored”. Se in quei solchi, tuttavia, la rara genialità nel coniugare gli opposti e nel vedere “oltre” di Braxton spostava l’asse della scrittura verso parametri squisitamente jazz (è sufficiente scomporre analiticamente pezzi come “Atlas”, “Ddiamondd” e “Tij”, scrutarne l’evoluzione, per rendersene conto), qui è altro il genio tirato in ballo: è la maestria dell’assemblaggio, contrappuntata naturalmente da una “mano invisibile” keynesiana che regola i rapporti tra i costituenti. I risultati, in fondo, non differiscono troppo: da un lato si guardava globalmente alla composizione (nel qual caso, le eventuali digressioni rispettavano o violavano una regola compositiva più o meno tacitamente condivisa), oggi si avanza a piccoli passi, per blocchi materici che, incastrandosi fra di loro, erigono l’intero edificio-canzone (ma il progetto finale rimane, fino all’ultimo, indefinito).

FF Bada” sembra, letteralmente, scriversi da sola, schiacciata tra bassi e chitarre di altri decenni (i Noughties? Indovinato!) ed arrivando ad un finale che, decontestualizzato, potrebbe persino richiamare alla mente gli Autechre di “Chiastic Slide”. Vola sulle ali dell’art rock – con riff elementari, contagiosissimi: la meglio testa e il meglio culo – una “Dot Com” che rovescia, in un battibaleno, il sornione gattonare jungle di “Dot Net”. “Summer Simmer”, la più brillante, è una cavalcata progressiva attraverso tornelli da incubo, stridori psichedelici, non-melodie centrifugate da una macchina ritmica inarrestabile: il successivo ribaltamento afro-wave (ma quanto deve piacere l’Adrian Belew marchiato Talking Heads?) consente al dinamico Stanier di far esplodere, finalmente, il proprio crash. Il tutto assume proporzioni grottesche, se si prende in considerazione la sbilenca elegia ambientale, immediatamente seguente, di “Cacio E Pepe”. In “Tricentennial”, chitarre squillanti come tromboni di una chiassosa banda di paese costruiscono una linea melodica non meno che ayleriana, mentre Stanier e Williams la intrappolano in una letale gabbia doncaballeriana. L’arte della ripetizione emerge, in tutta la sua maturità, in una “Megatouch” che – senza variare sensibilmente la propria andatura – vira da demenziale noir a drum’n’bass circense e stonata, a grumo di loop scheletrici: ogni passaggio è propedeutico al successivo, va a penetrare e a conficcarsi in esso, non sapendo cosa succederà da lì a breve.

Un ceffone in faccia a detrattori e malfidenti, “La Di Da Di” è disco, a suo modo, anarchico e personale come i precedenti. Il godimento, questa volta, è però quasi esclusivamente cerebrale: da cui il voto assegnato, relativamente inferiore.

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Voto degli utenti: 7,3/10 in media su 2 voti.
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