R Recensione

8/10

Electrelane

No Shouts No Calls

A rendere istantaneamente simpatico un gruppo come le Electrelane è quell’impressione di candore intellettuale e di passione che le quattro ragazze inglesi sprigionano nello sviluppare le loro sonorità.

Mentre si ascoltano i loro dischi, si riesce ancora a percepire l’odore di qualche anno fa, quanto tutto quello che si ascoltava aveva una patina diversa, un’aura di mistero che permaneva fin quando un album veniva consumato, prima di essere posto negli scaffali (e non nella cartella del pc).

Semplicisticamente: si sente la vecchia scuola.

Di quando si correva alle Poste col cartoncino beige del postino che annunciava l’arrivo di un pacco zeppo di cd, e la serena convinzione che quei suoni sarebbero durati, ognuno a suo modo, una porzione di vita, e che ci avrebbero accompagnato, volenti o nolenti, per almeno qualche mese; o fino a quando il portafoglio ci avrebbe permesso un nuovo ordine.

E di dischi imperdibili ne uscivano ogni mese, come e più di oggi: l’emo era una cosa che ti stingeva il cuore, oggi ci sono Panic!At The Disco, From Autumn To Ashes, My Chemical Romance, allora c’erano Promise Ring, Mineral, Braid, Christie Front Drive,Get Up Kids, e via dicendo.

Ai concerti di indie-rock non si vedevano liceali con i jeans stretti, la tracolla con le spilline e il capello da putto fiorentino ad impersonare improbabili Pete Doherty de noantri, bensì orde di slacker vestiti incantevolmente alla cazzo, con gli occhi scintillanti e malati di musica e di nient’altro (e chi dettava legge erano band che venivano da cittadine in mezzo al nulla chiamate Modesto, per fare un esempio).

E, riallacciandoci all’oggetto della nostra recensione, dischi come ‘Emperor Tomato Ketchup’ erano ancora accanto allo stereo, impilati a casaccio ma non ancora scavalcati dagli ascolti forzati a cui oggi spesso ci si sottopone.

Ed è un piacere che un gruppo di sole ragazze riesca nell’impresa di far respirare ancora certe attitudini; ci eravamo quasi abituati al ribasso con le stupidaggini alla Pipettes o a compitini Smiths-wannabe alla The Organ.

Tutto questo pistolotto nostalgico per introdurre ‘No Shouts, No Calls’, un disco che ha le carte in regola per essere considerato un grande album Pop, uno dei migliori ascoltati in questo 2007.

Cosa dire del quartetto di Brighton formato nel 1998 dalla menti infuocate di Verity Susman ed Emma Gaze: due innamorate del suono kraut e degli Stereolab, divenute vero e proprio culto sotterraneo con i loro repentini cambi di direzione, gli album cosi diversi tra loro e pieni zeppi di citazioni colte, richiami linguistici stravaganti, la ricerca costante di sgrezzare un suono rendendolo fruibile, che si tratti delle mirabolanti improvvisazioni in presa diretta del feroce ’Axes’, o dell’esuberanza vocale di ‘The Power Out’.

Questa quarta uscita, registrata durante i mondiali di calcio a Berlino l’estate scorsa, riporta le quattro ragazze nell’alveo di un pop scintillante e realmente entusiasmante, sempre a mollo in un ricco substrato kraut-rock.

La voce di Verity apre a ventaglio tutta la gamma di possibilità esprimibile dalle sue corde vocali, colpendo in tal senso già dalle iniziali ‘The greater times’ e ‘To the east’: due bombe artigianali di emozionalità pop capaci di portare lontano sui tappeti volanti di un Farfisa nel primo caso, e sul tappeto rosso di nostalgici loop di chitarra e ficcanti ritmiche nel secondo.

Notevole anche il modo in cui la batteria, pur rimanendo in primo piano nel carattere del disco, riesca a reggere il peso dei brani in modo essenziale e sobrio, e proprio per questo motivo aumentandone la forza tragica, (si senta ‘Saturday’).

After the call’ nasce intimista e muore incendiaria, ‘Tram 21’ è una cavalcata kraut con il Farfisa sparato in primo piano che neanche gli Stereolab migliori, ‘The lighthouse’ è una jam che dal vivo promette miracoli; se cercate della magniloquenza grondante nostalgia rivolgetevi a ‘In Berlin’ con i suoi campionamenti d’archi o al piano di ‘At sea’; se viceversa cercate cattiveria e chitarre rivolgetevi ad una ‘Between the wolf and the dog’ che innesta coretti sixties su frenetici riff di stampo metal, o a ‘Five’ coi suoi rallentamenti e ripartenze.

L’apice dell’album è ‘Cut and run’, una filastrocca ‘stupefacente’ fatta di (quasi)niente: un banjo strimpellato, una batteria elementare, una voce magica; come un balsamo per affrontare i piccoli-grandi ostacoli quotidiani.

Un pieno di intelligenza pop con la quale il veliero raffigurato in copertina potrà solcare per molto tempo i nostri cuori.

V Voti

Voto degli utenti: 4/10 in media su 1 voto.
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