La Düsseldorf
La Düsseldorf
"There were three great beats in the 70s. Fela Kuti's Afrobeat, James Brown's funk, and Klaus Dinger's Neu! beat." (Brian Eno)
Klaus Dinger, uno dei musicisti fondamentali dei 70s, è morto lo scorso 21 marzo, a soli tre giorni dal suo sessantaduesimo compleanno. Ok, conoscerete già tutti questo signore e di certo non avrete voglia di leggere lennesima manfrina celebrativa: in fondo, trattasi di un nome talmente venerato che sarebbe quasi superfluo ripercorrerne la carriera a suon di è stato il primo a o prima di lui non . Il sottoscritto, però, adora la pedanteria e quindi lo farà ugualmente. Per di più, al di là del sacrosanto minuto di silenzio a cui dovrebbe sottostare il popolo rock da un capo allaltro dellemisfero terrestre, questo lutto riporta allattenzione generale un soggetto di cui difficilmente la musica del secolo scorso potrà scordarsi.
Già batterista nella primissima incarnazione dei Kraftwerk, poi co-titolare, assieme alla sua nemesi Michael Rother, del marchio NEU! sotto il quale perfezionò il celeberrimo battito Motorik (vero e proprio trademark di gran parte della scuola tedesca, nonchè involontario regalino per le future generazioni di new wavers e post-rockers), Dinger si è rivelato fin da subito una delle menti più anarchicamente lucide della sua generazione; uno che con le sue intuizioni ha dettato i tempi del cambiamento, insomma. Talmente avveniristico da prefigurare, nella seconda facciata dellassurdo (in senso positivo) NEU! 2 (1973), addirittura un antenato dellodierna pratica del remix, ottenuto manipolando a diverse velocità e in reverse il singolo Neuschnee/Super. Il fatto che tale espediente fosse dovuto a ristrettezze economiche i due erano infatti rimasti a corto di "dinero" per terminare le registrazioni da al tutto un retrogusto dinarrivabile delizia, da perfetto manufatto pop art.
Dalla diaspora post-NEU! nacque invece laltrettanto seminale progetto La Düsseldorf, dimostratosi, a conti fatti, pure il più commercialmente redditizio: un milione e passa di copie vendute per tre album non sono poi così malaccio per un rocker avantgarde abituato a smerciare poche migliaia di dischi agli "afecionados". Vale quindi la pena soffermarsi sullesordio del combo, quel fantasmagorico omonimo del 76 che, pur non essendo la loro uscita più famosa (per quello bisogna indirizzarsi su Viva del 1978, propulso dai singoloni Rheinita e Cha Cha 2000), resta sicuramente la più intrigante e compiuta. Le parole di Bowie, a tal proposito, rimbalzano prepotentemente nel cervello: La Düsseldorf la colonna sonora degli anni 80. Una mitizzazione, in pratica. Eppure è ben lungi dal farneticare, il buon Duca Bianco, specie se si considera il peso avuto da questo dischetto nel concepimento dei suoi capolavori berlinesi e, di riflesso, in buona parte della musica del decennio 80s.
Da molti salutato come una salubre variante popnroll delle glaciali trame kraute, La Düsseldorf si staglia a maliardo spettro di un futuro prossimo ove collidono veemenza punk e timori elettronici, seriosità accademiche e senso del ridicolo. Apparentemente rilassato, quasi svincolato dalle quadrature avant della sua precedente creatura, l'ora chitarrista, tastierista e vocalist Klaus Dinger (qui coadiuvato dal fratello Thomas e da Hans Lampe) mette il suo suono al servizio di unesplorazione fisica della metropoli: una Düsseldorf ritratta in un paradossale gesto naif di divertimento algebrico, culla di uno spontaneismo finalmente libero di straripare impunemente.
Laddove lessenza dei primi NEU! si palesava nel controllo assoluto di una percezione (diciamolo: quella dei NEU! era già dance music davanguardia per ensemble rock), ora pare subentrata uninsana attitudine alla costruzione e scomposizione della tessitura; una volontà impellente dinteragire con la materia e non di contemplarne, inermi, il divenire.
Davanti a noi, la visione. Ecco il minimalismo percussivo Dinger-style impastarsi di chitarre soffici, miraggi della futura electro, serene visioni da cartolina alla Autobahn, tragitti stradali risucchiati nella gola della notte e punteggiati da coretti a metà fra lebete e lelegiaco (immaginate i Beach Boys imbottiti di Lsd che cantano Sloop John B. in tedesco) nei tredici minuti di Düsseldorf. Ecco il rigore geometrico del motorino ritmico Io lo chiamo Battito Apache preciserà Dinger stemperarsi nel cazzeggio controllato di NEU! 75 e incorporare la furia delloi! da stadio in quello che è il momento più crudo e piacevolmente ludico del lotto (La Düsseldorf). Ecco le qualità mantriche della magnifica Time scandire le ultime curve del viaggio in un abbatoir di reminiscenze raga, intrecci dorgano e pianoforte tanto iridescenti da sublimare in un sol colpo le virtù space-rock di Ash Ra Temple e Amon Dull II in una lingua asciutta e inequivocabilmente moderna.
Lungo il percorso, il capolavoro dentro al capolavoro: Silver Cloud, uno dei momenti più gioiosi e subdolamente (synth?)-pop concepiti da Dinger, concerto ultraterreno per unisoni di chitarre frippiane e tastiere cromate che paiono giungere direttamente da Heroes, anticipandone parte del sound. Non plus ultra di unoperetta già di per sé al bivio fra innovazione e classicità, questi sette prodigiosi minuti (editi anche come singolo) ne mettono a fuoco quasi tutte le strutture alchemiche: la snake-guitar percossa meccanicamente o effettata il giusto fra distorsori e delay ultraterreni; la batteria marchiata a fuoco dal suo ideatore, riconoscibile fra mille; gli svolazzi avveniristici dei synth; latmosfera di acre beatitudine a suggellare un ipotetico interscambio fra umanesimo pagano e un autismo già post-tecnologico.
Soltanto uno degli elementi manca allappello: la voce. E su La Düsseldorf la voce del Klaus gioca un ruolo a dir poco fondamentale, dato che è anche grazie ai suoi sberleffi alla-Johnny-Rotten-prima-di-Johnny-Rotten se ci sentiamo scuotere le viscere nellassalto della Title Track. Allo stesso modo, gran parte del fascino di Düsseldorf è diretta emanazione di sussurri afoni e madrigali in falsetto che, tra parentesi, non hanno proprio nulla da invidiare al salmodiare free-form di Kenji Damo Suzuki dei Can. Vista la sua duttilità, ancora non mi capacito della poca considerazione che Dinger vanta come vocalist.
Urge una rivalutazione, dunque. Un po come si rende doverosa non tanto una riscoperta del disco in questione (in fondo, nessuno se lè mai scordato), quanto un apprezzamento spassionato, libero dalla sudditanza universalmente provata nei confronti dei primi, leggendari passi discografici del Nostro. Da vero e proprio punk ante-litteram (laddove lex socio Rother era, come giustamente rimarcato, un talentuoso hippie fuori tempo massimo), Dinger ha perfezionato con La Düsseldorf un sontuoso manualetto di musica fuori dagli schemi (anche e soprattutto mentali), in cui miscelare gli sgoccioli della controcultura tedesca dei 70s, arte "pop-olare", melodismo elettronico ed elettricità livida e incazzosa.
Poco importa che i successivi progetti La! Neu? e Engel des Herrn messi in piedi nei 90s, quando luomo era già irreversibilmente cotto e il raffazzonato NEU!4 (Captain Trip Records, 1995) siano a dir poco trascurabili: il suo dovere Klaus bello laveva già fatto, e diligentemente, anche. Mancherà a tutti noi, questo folle sultano del raziocinio teutonico. Onorarlo sparandoci in cuffia le febbrili cavalcate di La Dusseldorf o, se siete più integralisti e nostalgici, la trance tellurica di NEU!, pare lunica cosa sensata da fare, ora come ora. A lui sarebbe piaciuto così. Forse.
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