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R Recensione

6,5/10

Mythic Sunship

Upheaval

Nell’introdurre “Upheaval”, quinto disco in studio dei danesi Mythic Sunship, è doverosa una premessa che, pur partendo da considerazioni di carattere personale, si presta facilmente ad essere generalizzata. L’affermazione perentoria che in un genere “si è già detto tutto”, nella maggior parte dei casi, vuole semplicemente porre l’accento sulla crescente difficoltà che nuove leve e nomi storici incontrano nel percorrere nuove ed originali vie comunicative. Nel caso di quella musica strumentale fluttuante tra i capienti confini dell’acid-kraut, tuttavia, l’accezione è ben più letterale, totalizzante: il mondo delle fluviali jam elettriche, senza timore di eccedere, non presenta più alcun tesoro nascosto, alcuna gemma insepolta. Prospettiva tranchant e forse discutibile ma, vista la crescente moria dell’ultimo decennio, altrettanto difficilmente ribaltabile.

Una volta accettata l’inevitabilità dell’assunto, la faccenda si fa in discesa e gruppi come i Mythic Sunship vengono inquadrati per quello che sono: nello specifico, una formazione sì revivalista, ma dotata di un gusto estetico non comune a tante altre band di genere. Rispetto al jazz elettrico di “Ouroboros” (2016) e alle circolarità hard rock del successivo e più convenzionale “Land Between Rivers” (2017), “Upheaval” – che va a completare una sorta di trilogia a tema per El Paraiso – è certamente il capitolo in cui l’influenza motorik, sebbene filtrata attraverso una massiccia lente heavy-psych, si fa maggiormente presente e percepibile. Il duplice rifferama in slow motion e parziale sovrapposizione che inaugura “Tectonic Breach” esibisce da subito tutti i suoi muscoli, snodandosi attraverso minuti e minuti di solismo lisergico che – dopo una pre-coda trattenuta e rappresa – esplode in un finale di potenza divellente. L’apice si raggiunge con il brano più breve del lotto, il boogie metallico e scartavetrante di “Cosmic Rupture” (6:44) che, per riprendere un paragone già impiegato nel recente passato, sembra uscito dalla penna dei Motorpsycho più espansi e ciclopici (quelli delle improvvisazioni live e di dischi studio come “Heavy Metal Fruit”, giusto per capirci). Le esplorazioni cosmiche, infine, riassunte discretamente nella suite conclusiva “Into Oblivion” (la cui chiosa blues, distorta ed ipersatura, fa quasi storia a sé), vengono rappresentate al meglio da “Aether Flux”, un tribale desert rock ricolmo di riverbero à la Yawning Man che lentamente decolla ad altezze space, prima di tornare a celarsi – con fare notturno e misterioso – tra le dune.

Non l’avrei mai detto, ma la voglia di rimettere sul piatto “Upheaval”, una volta completato l’ascolto, è forte. Valga questo commento come sintetica recensione nella recensione.

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