Popol Vuh
In Den Garten Pharaos
Il Popol Vuh era il libro sacro degli indiani Quichè, popolazione che occupò il territorio dell'attuale Guatemala fino al 1524, anno in cui Pedro de Alvadaro, sanguinario capitano al servizio di Hernan Cortes, entrò nella capitale e uccise il loro re. Da allora il testo sacro dei Quichè, il più potente e colto popolo tra i discendenti degli antichi Maya, ebbe una vita travagliata fra trascrizioni, traduzioni spagnole e continue scomparse e ricomparse.
Di tutto ciò doveva aver certamente sentito parlare Florian Fricke, pianista diplomatosi all'accademia di Friburgo e personaggio dalla spiccata sensibilità musicale, quando nel 1969 dette il nome al suo nuovo gruppo.
In Den Garten Pharaos resta l'apice assoluto della sua carriera, l'esperienza mistica universale.
L'opera è divisa in due parti: In Den Garten Pharaos e Vuh. La prima parte è primitivismo musicale allo stato puro, un ritorno ancestrale all’arcaismo della non razionalità, dove la fruizione da parte dell’ascoltatore è slegata da ogni condizionamento esterno, la mente è libera e diventa il veicolo per mezzo del quale si può arrivare ad uno stato di trance ascetica. A tratteggiare la cornice di questo ritratto sonoro vi sono percussioni e rumori ambientali, tra i quali quello certamente più efficace è lo scorrere intenso dell’acqua, che incessantemente fluidifica il suono e lo trasforma in un guanto vellutato che trasporta lo spirito della musica verso la destinazione immaginaria di questo incredibile viaggio sensoriale: il giardino del faraone.
La seconda parte, Vuh, è il mantra cosmico per eccellenza: registrato nella cattedrale medievale di Baumburg, innalza il suo coro cerimoniale con un organo a canne che sprigiona energia corroborante, l’eco delle solite percussioni stavolta più fitte, accompagnano i synth che creano la strada sonora da seguire per la meditazione e l’atmosfera che si va a creare è una delle più suggestive che si possano trovare nella musica popolare di tutti i tempi.
Un disco assoluto, innovativo, religioso, trascendente, straniante, cerebrale, impulsivo, un disco di musica sacra astratta, in onore della divinità dalle forme indefinite che questa esperienza è riuscita ad evocare, un disco che rappresenta in tutto e per tutto il periodo più splendente del krautrock cosmico, quello dove la musica era ancora un mezzo non per arricchire chi la produceva ma bensì per raggiungere forti emozioni e sensazioni come lo stesso Fricke espresse:
“(…) Nell’apparato propagandistico del capitalismo la musica s’incarica di stendere un velo che serva a coprire la ragione, a impedire di scegliere e decidere. Gran parte del pop americano e inglese si ritrova in quest’ambito deteriore, dove l’arte dei suoni diviene corruzione o appare in stretto accordo con essa”
Un disco il cui suono celestiale vibra tutt’ora da un altro mondo, quello che pare il giardino più bello e del quale Florian, da quando ha esalato l’ultimo respiro, può esserne finalmente il suo faraone.
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