R Recensione

6/10

Ukab Maerd

The Waiting Room

Gli Ukab Maerd sono un side-project degli Djam Karet, tanlentuosa rock-band dedicita al progressive più sperimentale. Tuttavia sebbene due dei membri storici di questa formazione siano qui coinvolti (Gayle Ellett e Chuck Oken jr., entrambi impegnati a stratificare suoni e idee sotto tonnellate di sintetizzatori analogici e digitali e sotto quintali di loop mesmerici), radicale è la differenza nelle sonorità prescelte.

I due musicisti si avventurano in quattro lunghe composizioni strumentali, certamente frutto di improvvisazioni, nei quali ci si stacca del tutto dalla cultura Progressive fatta di dinamici cambi tempo e di umore, assorbendo invece molta di quella alchimia pulsante che fu propria del Krautrock dei primi anni ’70. Tutto assume un sapore esoterico e reiterato: pare quasi che in sala di incisione si siano materializzati i fantasmi dei Cluster, dei Popol Vuh, dei Tangerine Dream e quindi di Klaus Schulze, facendo molto meditabondo rumore.

Tutto si tinge di quelle dilatazioni che da sempre hanno scandito quella enorme esperienza di eterodossia cosmica che fu il Krautrock di stampo più ambient. Da quelle pieghe avrebbe preso le mosse quel geniaccio dal cuore pop di Brian Peter George St. John le Baptiste de la Salle Eno. Ma qui siamo cronologicamente indietro: The Waiting Room rimane fieramente ancorato agli arbori di questa surreale esperienza.

L’unica concessione al gruppo madre, i Djam Karet, risiede nel nome del duo: Ukab Maerd letto al contrario (Dream Baku) fa riferimento all’album A Night For Baku del 2003 della formazione statunitense. In The Waiting Room si inaugura un limbo onirico immanente, dal quale si è ammaliati ma dal quale si desidera anche fuggire.

Sicuramente questa proposta, così pesantemente in odor Kosmische Musik, potrà rivolgersi già a tutti coloro nelle cui vene scorre un sangue “alieno”. Ai poveri umani, ai terricoli, richiede una capacità di concentrazione (o di astrazione?) quasi ultraterrena.

E la porta di accesso a questo mondo così “altro”, resta forse la traccia di chiusura, Sati & The Trainman, che pur nei suoi undici minuti, risulta particolarmente fruibile e meno straniante. Il disco è indubbiamente ricco di fascino, di fascino oscuro, ma come mille altre volte quando vengono tirati in ballo precursori così significativi, alla voglia di approfondire si sostituisce il desiderio di ritornare alla fonte, specialmente nel caso in cui è molto tempo che ad essa non si torna.

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