R Recensione

8/10

Dungen

Tio Bitar

Ascoltare un disco dei Dungen è come ritrovarsi in un bar a infilare monetine in un vecchio juke-box del 1975. La band svedese, arrivata al quarto album, in effetti aveva già fatto abbastanza rumore con l’uscita di Ta Det Lugnt (2004) e il suo amore per il rock psichedelico dei 60s, rielaborato in maniera forse non molto originale ma con una certa abilità tecnica e compositiva.

La sorpresa è che le prodezze mostrate in Ta det lugnt non sono state un mero episodio, e vengono superate notevolmente dalla maturità mostrata in Tio Bitar: la psichedelia è sempre dominante, così come sempre presenti sono gli episodi pop e le sfuriate prog d’altri tempi, ma il tutto viene eseguito con grazia tecnica davvero ineccepibile; una grande passione presente nell’aria e un’ottima disposizione alternata di ritmi e generi (la famosa legge del “rapido-lento-rapido” che funziona sempre) sono gli ingredienti che rendono questo disco molto più che semplicemente interessante.

Si parlava all’inizio di juke-box, e in effetti per gli appassionati rock vecchio stampo che vissero la stagione d’oro di fine anni ‘60 può risultare davvero divertente cercare di ritrovare i vari influssi nei diversi brani.

Pur non avendo vissuto di persona quello splendido periodo ci si sente di poter notare alcuni interessanti “omaggi”: Intro, che apre il disco, è una splendida sfuriata epilettica in cui sotto lo sfondo di una batteria frenetica piovono riff e assoli pirotecnici degni del miglior Jimi Hendrix con in più la potenza sonora dei primi Blue Cheer (quelli di Vincebus Eruptum per intenderci). Familj è invece un pop psichedelico più corale che si può situare tra Jefferson Airplaine e Byrds. Gor det nu sfrutta ancora una potente base ritmica e potenti distorsioni chitarristiche ma la sua struttura prog la rende molto vicina ai primi Genesis e ai Caravan.

C visar vagen è un ottimo esempio di 70s space rock: Tangerine Dream e Popol Vuh sospesi in un’atmosfera new age dominata dalla splendida melodia violinistica.

Du ska inte tro alt det ordnar sig potrebbe essere un ideale incontro tra gli Electric Prunes e i Beatles mentre Sa blev det bestamt è un’altra abile conciliazione pop-prog dalle tinte esotiche (Santana o Can?).

Se non fosse per il titolo in svedese saremmo invece quasi sicuri che Ett skal att trivas è in realtà un’out-take dei Beatles del White Album.

Svart ar himlen, dall’accattivante giro di pianoforte, sente gli influssi di Donovan e Can.

E non potevano mancare i Pink Floyd in questa rassegna, ripresi alla grande in En gang I ar kom det en tar, ispirato al periodo floydiano di metà 70s (Wish You Were Here, l’album, non la canzone).

Finito?

No, in effetti. Manca il capolavoro del disco, lasciata appositamente dal sottoscritto da parte per poterne vantare la magnificenza: Mon Amour (oltre otto minuti) presenta all’inizio varianti prog-pop con qualche assolo e riff piuttosto duro che un orecchio giovane troverebbe rubato ai White Stripes. L’inizio in realtà non sembra niente di diverso dal solito con quei coretti molto Beatles e quei tiepidi ricordi Who. Poi però arriva il fulmine a ciel sereno: Gustav Ejstes, ispirandosi allo stile di Stephens (sempre Blue Cheer) ti piazza lì un assolo mastodontico, una frustata tremenda di svariati minuti in cui a parere del sottoscritto sembra raggiungere e superare il maestro californiano. Fenomenale anche la batteria che picchia con una frequenza e una potenza degne di Bonham e pochi altri. La maratona Mon Amour è sicuramente il punto più alto di un disco godibilissimo che riesce a far tornare indietro nel tempo di oltre trent’anni senza scadere per questo nell’anacronistico.

Chi non conoscesse i Dungen può sicuramente cominciare da qui. Non se ne pentirà.

E chi si volesse approfondire la loro discografia scoprirebbe un gruppo che, assieme a White Stripes,Ghost e Soundtrack of Our Lives è tra i pochi ad essere riuscito a catturare la vera essenza della libertà sonora di fine 60s.

V Voti

Voto degli utenti: 7/10 in media su 3 voti.
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REBBY 6/10

C Commenti

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Ivor the engine driver (ha votato 7 questo disco) alle 12:16 del 18 maggio 2007 ha scritto:

meglio ta det lugnt

....secondo me al prossimo album già hanno rotto le palle. Per carità tre anni fa ta det lugnt fu una goduria per le mie orecchie, già questo (pur essendo meglio di molta cacca che gira) mi sembra meno caleidoscopico. Familij secondo me è proprio brutta. Per il resto concordo con le tue citazioni anche se scomodare Popol Vuh e Tangerine per quel pezzo mi sembra un po' esagerato, ma a grandi linee ci può stare. A parte i Ghost non sono d'accordo sull'assunto finale: i SOOL mi spiace ma fanno ridere, veramente fastidiosi, i white stripes ok ma dopo due dischi le idee son pochine.

Alessandro Pascale, autore, (ha votato 8 questo disco) alle 12:57 del 19 maggio 2007 ha scritto:

andiamo con ordine allora:

1) ovvio che il rischio che restando ancorati a quel periodo musicale rischino di diventare un pò monotoni però a mio avviso mi sembra che finora abbiano saputo addentrarsi sempre meglio nel campo. Per come la vedo io si stanno migliorando sempre più da quel mediocre stadsvandringan.

2) personalmente i Sool li trovo eccezionali, incredibile la loro capacità di coniugare melodia e psichedelia soft.

3) Dai i White Stripes hanno invece proprio il pregio di aver provato a fare il balzo in avanti con l'ultimo album Get Behind abbandonando quasi del tutto la chitarra per cercare nuove soluzioni. E devo dire che nonostante il mio scetticismo iniziale si può ora dire che a distanza il disco regge benissimo. E cmq per loro parlerà il loro nuovo album che qui si attenda con ansia