The Black Angels
Directions To See A Ghost
Lo spirito di Roky Erickson torna ad aleggiare indisturbato grazie a questo nuovo lavoro dei texani Black Angels: Directions To See A Ghost ci propone infatti una mistura psichedelica fatta di 13th Floor Elevators, Velvet Underground e Pink Floyd aggiornata al revival garage rock di questi anni zero e tinta di nero grazie all’aggiunta di sonorità dark prese in prestito da gruppi come Red Temple Spirits o Echo and The Bunnymen.
L’intento di rispecchiare l’attitudine visionaria degli anni ’60 è evidente e rafforzata dalle numerose citazioni che fanno capolino in tutto l’album, imponente monolite formato da undici gioiellini caleidoscopici e vibranti, ma uniti da una circolarità che caratterizza lo sviluppo di ciascuno di questi, in grado di avvilupparsi su loro stessi tra ritmi tribali altamente attraenti, riff abrasivi e desertici e voci riverberate e trascinate…Se con Passover si stavano ancora mettendo le ali, con questo si spicca decisamente il volo.
La dedizione e la straordinaria ispirazione con cui i nostri cercano di far rivivere le istanze psych, quelle più free e freak, si fa subito manifesta nel primo disarmante pezzo: You On The Run sfoggia chitarre affilate, ritmi ossessivi e voci lugubri costrette a convergere in improvvise esplosioni noise capaci di dare incredibile enfasi, come un continuo gettare benzina sul fuoco, al brano. Un rito iniziatico per introdurci in questo sabba trascendentale e mistico, cui segue, forse per illuderci di un allentamento dei toni, la più pacata e blanda Doves (con un titolo così d’altronde…), immersa in un’acida serenità adatta per affinare la ricettività in vista dei pezzi successivi.
Science Killer riparte infatti all’attacco all’insegna di un basso pulsante corazzato dall’esasperato tribalismo percussivo e dai desertici sonagli. Una psichedelia costantemente tinta di nero, minacciosa e destabilizzante, ci accompagna nelle sue fredde mani per portarci alla successiva Mission District, in grado di concentrare in sé tutta l’energia negativa fino ad ora accumulata, sfoggiando ritmi ancora più serrati e chitarre sempre più abrasive. In questo caso la vena pink-floydiana appare più nitida che mai nello sviluppo strumentale del brano: un’irresistibile e arcana circolarità vorticosa ci riporta alla mente gli sviluppi di A Saucerful Of Secrets…
Dopo la più distesa e sixties 18 Years, si sfocia nel pieno misticismo orientale con Deer-Ree-Shee, dove sono il sitar, i sonagli ed una voce allucinata e quanto mai sinuosa gli elementi caratterizzanti, lasciati liberi di fluire in una conclusione strumentale mozzafiato fatta di passaggi trasversali ed intricati di note ed evocazioni sensuali.
Never/Ever raccoglie tutto quanto sentito finora per forgiare il definitivo capolavoro: un iniziale e lento incedere avviluppato mestamente su se stesso lascia presto lo spazio ad un infuocato rincorrersi di note e sensazioni inebrianti. Una cavalcata delirante, una The End aggiornata alla contemporaneità, un’imbizzarrita liberazione anarchica dell’Io più recondito e selvaggio. E il solenne uso dell’electric jug è, oltre che un omaggio sentito a Erickson e soci, uno splendido modo per dare completezza ai sensazionali saliscendi lisergici che percuotono tutta la seconda metà del brano.
Vikings a questo punto è costretta a rallentare, anzi, ad affondare lentamente in una vischiosa nebulosa oscura ed ipnotica, in una fitta nebbia di feedback e distorsioni; You In Color si riappropria invece di quell’energia chitarristica tipicamente seventies ma inevitabilmente macchiata di anni ’80 e furiosamente rivolta ad un ennesimo libertario sfogo strumentale senza alcun freno.
Lo shoegaze di The Return ci prepara infine per la gigantesca, colossale, spaventosa suite di Snake In The Grass.
Si tratta qui di riaffermare il concetto di immaginazione al potere, di dominio incontrastato e incontrollato di un’esuberante creatività in arrivo direttamente dai cuori pulsanti dei nostri musicisti, senza alcun filtro imposto dal cervello…E allora assistiamo a sedici minuti di pura istintività musicale ribollente, di duelli e rincorse tra chitarre pungenti e penetranti e percussioni lanciate indomite in un instancabile moto perpetuo tra sonagli, grida, assoli laceranti, feedback, primitivismi…
Insomma questo è un grande disco, l’ennesimo tentativo di riaffermare il predominio dei sensi, la brutalità istintiva che fa della musica non solo uno strumento di esplorazione di se stessi, ma anche di tutto ciò che sta fuori dai nostri limiti fisici e cognitivi, di tutte quelle dimensioni che a partire dalle jam dei Grateful Dead la musica ha aiutato a percepire.
Non ho nient’altro da dire…
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