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R Recensione

7,5/10

The Black Angels

Indigo Meadow

Love me two times

 

Il filone della neo-psichedelia è, tra le manie del retrò, senza dubbio uno dei più prolifici in questi anni. Per citare solo alcuni tra i più chiacchierati nell’ultimo periodo, quanto meno da queste parti, passo in rassegna  Black Rebel Motorcycle Club, Dead Meadow, Tame Impala, Toy, Goat, Wolfmother, White Stripes, fino ai forse meno famosi Singapore Sling, Wooden Shjips e Sleepy Sun (e ce ne sarebbero tanti altri), a richiamare i suoni e le sensazioni allucinanti, calibrate in maniera e misura diversa, di Beatles, Grateful Dead, 13th Floor Elevetors, Doors, Velvet Underground, Blue Oyster Cult, Amon Duul II, fino a, nei casi più hard, Black Sabbath, Uriah Heep, Deep Purple, Rainbow, e così via. I Black Angels, giunti al 4 LP in 8 anni di copiose produzioni, sono sempre stati di diritto in questa squadra e l’ultimo Indigo Meadow ne è conferma piena.

 

Ci saranno gli integralisti e i puristi (e mediamente in passato mi accodavo a loro), che bolleranno questo disco così come tutto il filone appena citato alla stregua di una fabbrica di stamponi di classici, tentativi, nati stanchi, di proporre come roba nuova degli esercizi devoti di stile in direzioni fin troppo definite, e quelli che, forse anche per una scarsa conoscenza delle fonti, grideranno al miracolo. Proverò a non trovare la facile via del compromesso salomonico tra le due correnti, dando un giudizio chiaro e netto sul disco, provando pure ad estrapolarlo dal contesto storico e della società musicale che l’ha partorito.

 

Indigo Meadow è un gran bel disco, mediamente molto duro, decisamente ispirato, che non si può collocare da un punto di vista temporale e che potresti facilmente rifilare al nostalgico biker baffone nato per essere selvaggio, dicendogli che è un gruppo di 40 anni fa che inspiegabilmente non ha avuto successo. Ci cascherebbe, con tutte le scarpe. Ma la forza del disco non risiede nel proporre in modo impeccabile i canoni della musica di riferimento quanto piuttosto nel farlo con passione rinnovata e artisticamente ispirata.

 

Tra le fonti di riferimento di questo disco spiccano, su tutti,  Doors, Uriah Heep e Velvet Underground. I primi contribuiscono (principalmente) con gli arrangiamenti, comprensivi di riverberi e tastiere tremolanti, i secondi danno la forza, gli ultimi il fiato e la melodia.

Poi, però, basta, e l’invito è di godersi quanto proposto in serenità d’animo riconoscendo, se possibile, la qualifica di punti di forza ai riferimenti che vengono alla mente e che comunque cercherò di sottolineare di seguito. Il disco brilla infatti di una luce propria e questa luce la dà principalmente la forza innegabile di un bel numero di tracce, alcune addirittura superlative, tipo la title track. Cupa e cadenzata dal ritmo sordo e sgonfio di tom e rullante, arricchita da arrangiamenti certosini di chitarre e tastiere in perfetto stile. La voce è di quelle che ti entrano nelle orecchie dalla porta principale, perché riconoscibile, perché sicura di sé, perché dopo poco ti ci affezioni. Altro pezzo superlativo è “Love me forever”, forse il manifesto di quest’album e dell’impronta rappresentativa di questi Black Angels dove il piglio lirico quasi mistico dei Velvet Underground (primaria fonte di ispirazione dichiarata di una band che deve il suo nome, lo ricordo, alla loro “The black angel’s death song”),  si fonde all’energia massacrante di Black Sabbath e Uriah Heep, il tutto addolcito dalle stridule tastiere in perfetto stile Doors. Altro capolavoro è “Don’t play with guns” con tripudi di chitarroni fumanti a fare da contraltare ad un cantato malizioso, riverberato nel coro del ritornello. Può capitare (a me è successo) di immaginare Jim Morrison e soci interpretare brani come “Holland” e “I hear colors (chromaesthesia)”. Sarebbero state perfette per un loro album, sicuramente di successo mentre profumi di garage psichedelico stile Remains sono il marchio di fabbrica di “The Day”, con in più la sensazione di aver ascoltato qualcosa del genere anche nell’ultimo Django Django. I primi White Stripes featuring Jim Morrison sono invece l’immediato riferimento che viene alla mente per “Broken soldier”.

 

Il cammino, lungo ma con tappe brevi, verso l’ultima traccia, la tredicesima, è un viaggio in clandestinità sul treno della psichedelia dura e mediamente delirante. Ma è un cammino che va affrontato tutto, necessariamente, anche perché al capolinea c’è “Black isn’t black”dove l’attitudine psichedelica si affida ad un mezzo all'apparenza diverso, mai incontrato prima nell’album, e che sembra proprio rispondere al nome di elettronica. Ragion per cui, dopo il lungo intro di basso e voce, sembra di vedere salire sulla scena niente meno che i Chemical Brothers.

 

Insomma, che viaggio ragazzi, fregatevene di tutto e tutti, imbarcatevi e partite. Sarà una partenza intelligente.

Love me forever

V Voti

Voto degli utenti: 6,5/10 in media su 4 voti.
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gull 6/10
giank 7,5/10
Dengler 5,5/10

C Commenti

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Gio Crown (ha votato 7 questo disco) alle 10:32 del 25 aprile 2013 ha scritto:

Bello. Non si può dire altro. Ascoltando mi chiedevo "cosa è meglio: una tribute band che rifà in maniera quasi perfetta i pezzi di questo quell'altro grande musicista, senza nulla di suo e di originale ma apertamente imitativo o una band che suona cose proprie ma ricalcando in maniera quasi esatta le sonorità dei bei tempi che furono, tanto da far pensare a qualche miracolosa resurrezione?" Beh, credo che per questo album non ci troviamo né in un caso né nell'altro. Perchè nonostante siano riconoscibilissime tutte le citazioni e gli stili indicati dal recensore, questi Black Angels, sono riusciti a distillare un suono proprio, anche se ampiamente venato di ispirazioni "antiche". Aggiungerei tra le "guide spirituali" i Pink Floyd di The Piper at the Gates of Down, o meglio di epoca Syd Barret (The day, Always maybe). Insomma, per una "vecchia" ascoltatrice come me...una vera delizia!

gull (ha votato 6 questo disco) alle 19:42 del 23 maggio 2013 ha scritto:

Doors (soprattutto), Pink Floyd, una spruzzatina di Beatles che non guasta mai, qualche faciloneria da canzonetta e tanta sensazione retrò, a tratti anche fastidiosa e sterile. Però suonano potenti e nel complesso reggono abbastanza. Poi "Holland" è magnifica, mi ricorda i "The black heart procession" dei tempi d'oro.

REBBY alle 19:27 del 24 giugno 2013 ha scritto:

Forse il loro migliore. Attingono in particolare dal garage rock americano alla Nuggets, ma come giustamente evidenziato da Gull, con un orecchio anche al "post beats" psichedelico inglese (Beatles, Pink Floyd, Kinks). Si sente comunque che sono stati ascoltati anche gli anni 80 e 90. Con Gull concordo anche su Holland, la mia preferita.