Franco Battiato
L'era del Cinghiale Bianco
Nel 1979, Franco Battiato, siciliano dallo spiccato gusto per lesoterismo e la cultura orientale, era reduce da quella fase della sua carriera spesso definita sperimentale (degni di nota album davvero validi come Fetus o Sulle corde di Aries), che viene spesso fatta coincidere con il periodo compreso tra il 1971, anno della pubblicazione di Fetus, e il 1978, anno in cui LEgitto prima delle sabbie vede la luce. Gli album di questo periodo incontrano talvolta pareri contrastanti della critica del tempo e scarsa eco commerciale, per usare un eufemismo.
Nel 1978, in seguito alla pubblicazione di LEgitto prima delle sabbie per la Dischi Ricordi, Battiato cambia etichetta, passa alla EMI Italiana, evento che segna il ritorno di Battiato a una forma musicale più accessibile, ma senza dimenticare gli echi orientali che costelleranno sempre ogni suo lavoro.
Nemmeno Lera del cinghiale bianco costituisce uneccezione, essendo un lavoro pieno di riferimenti alla filosofia di René Guenon e ricco di scenari asiatici tanto cari allautore.
Registrato nello Studio Radius di Milano, lopera vede la luce nel 1979 ed è il frutto di una collaborazione tra il nostro e alcuni tra i maggiori strumentisti italiani del tempo: per citarne tre, il grande Tullio De Piscopo alle pelli, Alberto Radius, proprietario dello studio e mitico chitarrista prog, e il fedelissimo Giusto Pio, eccezionale violinista e raffinatissimo braccio destro di Battiato negli arrangiamenti.
Gli influssi esoterici presenti nellopera sono evidenti a partire dallo stesso titolo, omaggio al solito Guenon, e riferimento a una mitologica età delloro in cui luomo raggiunge la completa conoscenza e consapevolezza in senso spirituale, concetto che tornerà come leit-motiv in diversi punti del lavoro.
Si parte subito con la title-track: la potente sviolinata di Giusto Pio, i synth che piano piano si fanno avanti, e poi i delicati motivi di un Radius inacidito preparano il terreno alla quiete su cui danza leggiadra la voce di Battiato. Ma cè dellaltro: un quattro quarti filato contrappuntato da un basso a tratti pop-disco, preludio embrionale a qualcosa che vedrà completa ideazione e realizzazione due anni dopo, con La voce del padrone (Summer on a solitary beach è in questo senso emblematica). Il risultato è una new wave ibrida ed eccezionalmente contaminata dal cantautorato italiano e dal caro, vecchio prog rock. Battiato spera nel ritorno dellera del cinghiale bianco, e dipinge nel frattempo trame orientali tra umide serate estive allombra di minareti e vecchi dalla barba lunga seduti ai bar, per finire con frasi arabe scandite con fare quasi balbettante e sospirato. Inizio potentissimo dunque, grazie a quello che diventerà uno dei maggiori cavalli di battaglia dal vivo del musicista siculo.
Si passa quindi alla seconda traccia, ovvero Magic Shop, dal testo spesso ermetico e misterioso, caratteristica che diventerà sempre maggiormente consuetudine ben rodata. Apre le danze la nostalgica armonizzazione delle chitarre di Radius, seguita da De Piscopo e da chitarre acustiche morbide posate su un tappeto synth. Battiato viene lasciato solo con questultimo e parte con unesemplare dellermetismo di cui si parlava: Cè chi parte con un raga della sera/ e finisce per cantare La Paloma/ E giorni di digiuno e di silenzio/ per fare i cori nelle messe tipo Amanda Lear. Piano piano però vien fuori il messaggio del brano, accompagnato da una chitarra elettrica mai ingombrante e inframmezzato da cori soavi e sognanti; si riallaccia anchesso al tema dellera del cinghiale bianco, con unaspra e sarcastica accusa dellera del consumismo e della svendita della spiritualità (Vuoi vedere che lEtà dellOro/ era appena lombra di Wall Street?/ La falce non fa più pensare al grano/ il grano invece fa pensare ai soldi, o ancora Supermercati coi reparti sacri che vendono gli incensi di Dior/ rubriche aperte sui peli del Papa). Il secondo frammento dellopera sostanzialmente fila via che è un piacere.
Lo stesso si può dire per il brano successivo: Strade dellEst è una cavalcata rockeggiante con un incedere non affrettato, quasi rilassato a tratti, dal caratteristico suono sfumato anche grazie a tastiere che scimmiottano fiati annacquati. Come suggerisce facilmente il titolo, il brano offre diversi quadri dellEst, perennemente al centro delle attenzioni del nostro aspirante sosia di Diego Milito (o probabilmente è Diego Milito a essere un aspirante sosia del Battiato dellepoca), ma ciò che mi è risultato irresistibile dal primissimo ascolto è lo stile canoro del nostro, che insegue a tratti lirresistibile basso e lintera musica con esso, terminando i versi in tutta fretta, quasi per non uscire fuori tempo. Ciò che può sembrare un difetto è invece, a mio parere, piacevole allascolto, come nei versi Spinto dai Turchi e dagli Iracheni/ qui fece campo Mustafà Mullah Barazani in cui il nome del rivoluzionario curdo è detto tutto dun fiato. E poi la scrittura di Battiato, a tratti ingenua, a tratti eccessivamente retorica e influenzata dalla letteratura, appare comunque piena di fascino e mistero tutto orientale, sapientemente miscelata con la carica di ermetismo di cui egli si fa spesso e volentieri portatore.
Si arriva così alla traccia semistrumentale (a parte qualche frase sospirata) dellalbum, Luna Indiana, struggente notturno per pianoforte alla Chopin, accompagnato da archi sapientemente arrangiati, fino allesplosione moderna, quasi elettronica, di una tastiera che affianca il solito convenzionale piano. Un intermezzo davvero godibile e piacevolissimo che conduce a quello che rappresenta probabilmente lapice dellalbum, e il pezzo più riuscito, ovvero Il re del mondo.
Ci troviamo ancora una volta al cospetto di una citazione di Guénon, dal momento che lesoterista francese scrisse nel 1927 unopera intitolata, appunto, Il re del mondo, appellativo riferito, secondo la tradizione dellAsia centrale, al sovrano della mitica città di Agarthi, regno sotterraneo e nascosto agli uomini, dove questi, in compagnia di esseri semidivini, fugge dalla barbarie preservando le loro conoscenze.
Il re del mondo è un capolavoro strumentale di pregevolissima fattura, fatto di chitarre ritmiche insistenti e ossessive, su cui si inseriscono i controtempi di un magnifico basso e tastiere da mille e una notte, sognanti e provenienti da un mondo onirico, forse proprio dallantico regno di Agarthi. Poi arriva la batteria di De Piscopo a scandire il ritmo con deliziosi fill di transizione tra una strofa e quella successiva.
La voce di Battiato scivola sopra tutto questo, come una saponetta su un lago ghiacciato, è avvolgente, delicata, morbida, sorretta da una musica fiabesca ma anche incalzante e tetramente preoccupata sul finale. Insomma, davvero un pezzo impossibile da scordare e che potrebbe bastare da solo per denotare lincredibile livello artistico del lavoro in questione.
Pasqua etiope capovolge le atmosfere di Il re del mondo, tranquillizzando lo spettatore dopo la coda cupa di questultima. Aria da grande celebrazione religiosa, con un piano intimista, magnifico, rassicurante, che culla le orecchie, anche grazie al supporto di archi, fiati dolcissimi, tra cui spicca un oboe solitario. Il tutto scandito magistralmente da un De Piscopo in grande spolvero, ben misurato e mai banale, con un suono asciutto ma corposo. Latmosfera da celebrazione è accentuata da un Battiato in veste di sacerdote laico, che bofonchia una preghiera in latino e greco. Un pezzo assolutamente apprezzabile, anche se forse un po meno riuscito al confronto con gli altri: probabile però che lunico vero difetto di questa traccia sia il suo essere immediatamente successiva a un gioiello ineguagliabile come Il re del mondo.
E si giunge così allepilogo dellopera, lultimo dei sette capitoli di questo magnifico lavoro. Con Stranizza damuri, Battiato lesotico, lesoterico, lasiatico, quello della filosofia orientale, ci ricorda che è sempre e comunque un siciliano doc, un ragazzo di Giarre-Riposto (poi Ionia), provincia di Catania.
E così Stranizza damuri, canzone damore in siciliano, con uno xilofono vivace e armonioso, che fa compagnia a un violino dalla melodia ondeggiante e una grandissima sezione ritmica che si smarca dalla solita convenzione rendendosi protagonista nella coda del brano. In mezzo a tutto questo splendore, Battiato il siciliano racconta con voce flebile e rigorosamente in dialetto siciliano una storia damore ai tempi della guerra, la necessità del sentimento più grandioso e profondo che esista anche in un luogo e in un tempo dominato dalla morte e dalla distruzione, disseminato di immagini che respingono ogni speranza. Ed è in questo modo, con questo messaggio di speranza perpetua, che Battiato ci consegna lennesimo capolavoro di questo disco meraviglioso.
Possiamo facilmente dire che Lera del cinghiale bianco è un disco di transizione, una cerniera tra passato e futuro, tra sperimentalismo prog e pop intellettuale influenzato dalla New Wave.
La storia della musica è piena zeppa di dischi di transizione che, in virtù di tale status, appaiono incompleti, immaturi, né carne, né pesce. Battiato, da grande amante della contraddizione quale è sempre stato, costituisce a mio parere un caso isolato, un magnifico caso isolato. Battiato sforna un disco di transizione che costituisce la sintesi hegeliana della tesi sperimentalista di Fetus e dellantitesi pop che troverà lapice con lacclamatissimo La voce del padrone, attraverso un abile e riuscitissimo processo di Aufhebung musicale.
Ed è con questo gioco dialettico che Battiato supera il presente e il futuro, consegnando agli ascoltatori attenti del 1979, una gemma indimenticabile.
In due parole: il capolavoro.
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