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R Recensione

7/10

Johnny Marr

The Messenger

Ho fatto un sogno in cui erano tornati gli anni ottanta. La città era tappezzata di manifesti ciclostilati che annunciavano concerti, nascevano gruppi nuovi ogni giorno,  e l’alba della new wave subentrava alla rivoluzione del punk. Nel solito negozio dove commessi con il broncio d’ordinanza  smerciavano le novità d’importazione - vinili, succulenti singoli e riviste inglesi o americane -  avevo saputo di un nuovo gruppo con un cantante folle che prometteva spettacolo senza freni. E stavo, come sempre,  tentando di convincere un recalcitrante compagno di scuola ad accompagnarmi in quella temeraria trasferta.  Poi mi sono svegliato ascoltando alla radio “The messenger” di Johnny Marr,  emerito chitarrista degli Smiths al suo esordio da solista alla soglia dei cinquanta anni, ed un misto di nostalgia e affinità anagrafica mi ha spinto ad approfondire la faccenda. Negli stessi giorni le cronache musicali londinesi  riportano di un gran movimento fra est e ovest della city con i due negozi gemelli Rough Trade impegnati in concerti, promozioni e lancio di nuove promesse. Che sia venuto il momento, ormai quasi insperato di un risveglio del mondo rock?

 Cullandomi in questa speranza, torno a Marr,  fresco del titolo di “godlike genius” assegnatogli dalla rivista New musical express, che ha dichiaratamente fatto un disco senza stare a porsi problemi di somiglianza o derivazione dalle molteplici esperienze musicali vissute, prima fra tutte la straordinaria storia condivisa con Morrissey, ma suonando come riteneva fosse giusto. Mettendo prima di tutto in campo un gran lavoro di chitarre, tutte opera sua, per un aggiornamento del lessico brit  con tanto fascino  eighties ed un gioco di rimembranze da non perdere per chi abbia amato l’anima musicale degli Smiths.  Si parte con “The right thing right” ed i primi accordi non lasciano dubbi: il suono è quello e non ci stupirebbe se entrasse la voce  di Morrissey.

Marr canta con meno personalità,  ma la struttura  incalzante delle sue composizioni sempre condotte dal jingle – jangle delle chitarre colpisce nel segno . Sentite quante variazioni sulla tirata  “I want the heart beat” dedicata al rapporto fra anima e tecnologia, accusate  un  colpo al cuore con i  riff dell’inno identitario “European me” o della title track,  pogate con i cori e le chitarre wave di “Upstars”,  saltate con una air guitar al grido di “Generate, generate”.

C’è anche spazio per una ballatona dark “Say demesne”, per il quasi punk di “Sun and moon” e per l’oasi di tranquillità di “New town velocity”, introdotta dall’acustica, sviluppata su una melodia che ne potrebbe fare un classico istantaneo, e impreziosita da un solo da brividi.   

 

Insomma, non sono tornati gli ottanta, né i novanta (anche se è appena uscito un nuovo My Bloody Valentine ed è in arrivo la reunion degli Suede) , ma per chi voglia esercitarsi nei viaggi nel tempo, o anche solo nell’ascolto di un ottimo disco pop, qui c’è materia più che adatta.

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Voto degli utenti: 6,6/10 in media su 4 voti.
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hiperwlt 5,5/10
teocapo 7,5/10

C Commenti

Ci sono 3 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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bill_carson (ha votato 6,5 questo disco) alle 11:32 del 10 marzo 2013 ha scritto:

viene voglia di abbracciarlo. che sound! però ecco, lo stile tende a prevalere sul songwriting.

REBBY alle 8:39 del 14 giugno 2013 ha scritto:

Talento senza genio, mestiere senza arte, ma con parte eheh anche da americano resta sempre un mancuniano: è un bignamino carino di chitarra rock-brit (è bravo eh).

Say demesme è la mia preferita.

Matteo Giobbi (ha votato 7 questo disco) alle 18:53 del 16 agosto 2013 ha scritto:

Fine artigiano del brit rock. Album di grande classe.