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R Recensione

7/10

Owun

Le fantôme de Gustav

Gli Owun nascono nel 1992 come una buona sintesi di alternative pop, progressive-rock e noise, producono ben tre album e un’ottima serie di live nei quali offrono spettacoli dove si uniscono sonorità a metà tra un tumulto deformante e un rigido e marziale ordine. Dopo essersi sciolti, nel 2007 ritornano con un nuovo chitarrista e ricominciano un lavoro che si realizza in questo “Le fantôme de Gustav”. Già dai primi due brani di questo album ci si accorge che quella duplicità sonora tra caos e ordine non è affatto scomparsa: "Prémisses" è un caos cupo come un brodo primordiale, dove non c’è melodia che sovrasti il rumore, ma ad essa segue "Etoile en bout", brano che nasce da una calma melodia di arpeggi di chitarre per trovare una rigidità marziale nell’arrivo del basso e delle percussioni. C’è anche una voce, straniata e straniante, che canta una lingua irriconoscibile, rigidamente incastrata tra gli accrsi serrati di una chitarra inasprita da un suono metallico. È un new-wave che ricorda in modo vivido i Sonic Youth, le chitarre gelide e i toni alienanti, i ritmi scanditi da una batteria vuota e secca sulla quale si distende un tappeto composto dalle note prolungate del basso, la voce che balbetta, mugola, geme frasi inafferrabili, come provenisse da un paese sconosciuto, da un tempo lontano, o forse futuro.

È questo ciò che "Persephone" sembra suggerire: effetti spaziali, apparentemente trafugati da un alien-movie degli anni ’50, spezzano la marcia glaciale che incombe come un incubo su ogni cosa. Carbone riporta un aspetto celato degli Owun, un suono più pesante al limite dello stoner, seppure sempre fortemente irrigidito dal basso, che qui volteggia in arpeggi suonati con la violenza di coltellate. Anche la voce si appesantisce arrossando la gola in un tono rauco e primitivo, ma finisce per infrangersi sul brano seguente, "Berceaux", come una folata di vento bollente s’infrange su un mattino d’autunno: il cinguettio di uccelli che scoprono il primo freddo, le note che scivolano ondeggiando da una chitarra come le foglie scivolano a terra dagli alberi e i piatti di una batteria lontana come la minaccia invisibile di un lungo inverno. "Outil trois" costruisce un muro di suono dalla simulazione di un ronzio insopportabile che crolla in un’atmosfera cupa dove il basso e due chitarre non trovano sincronia, quasi ignorandosi l’un l’altro a trasmettere un tremendo sentimento di inadeguatezza.

Ma dal brano successivo ritorna il ritmo, il caos resta un sibilo accennato sullo sfondo di una rigida armonia alla quale tutti gli strumenti si piegano, anche la voce. Questa, come fuoriuscita da un freddo altoparlante, sembra dettare una marcia, emettere la voce insensibile di un ordine dittatoriale che si fonda sul basso e la batteria, del quale essa è solo l’acme essenziale capace di dare parola alla rigida razionalità sonora. In "Slow" questa ossessiva regolarità si esprime al massimo del proprio realismo e solo negli effetti incalzanti della chitarra della seguente "Acclame" s’intuisce il tentativo di una reazione che, ben presto però, sfocia in una tremenda rivolta. "Atmo" è l’illusione di una calma definitiva che ponga fine all’intensità del brano precedente, ma nella quiete che essa cerca di portare alle orecchie dell’ascoltatore c’è qualcosa di sinistro, un impercettibile senso di angoscia strisciante sullo sfondo. È il preludio alla conclusione, alla vittoria del caos sulla fredda razionalità, il preludio al brano finale, "Volux +". Ma ogni sbilanciamento, come ogni estremizzazione, cela in sé il germe della tragedia che questo pezzo finale rivela in tutta la sua deformante violenza: grida e spasmi vocali cercano di violare le gerarchie imposte dal basso, le chitarre si scindono, si dilatano e s’inaspriscono come raffiche di mitra, la batteria stremata dal caos incombente cerca allo strenuo delle proprie forze di imporre ancora un ritmo, serrato e imprescindibile, dissonanze spettrali gemono sull’impotenza di un ordine sonoro e soltanto la sfumatura del brano può chiudere questa tragedia ponendo fine all’intero album.

Le fantôme de Gustav” è il prodotto brillante, seppur non di facile ascolto, di un gruppo che non sarebbe possibile relegare nel semplice spazio musicale. Gli Owun infatti si muovono tra new-wave e noise mettendo entrambi al servizio di un progressive-rock in grado di raccontare perfettamente una storia, di riportare sulla pelle di chi ascolta una tragedia che si estende fino ai limiti della musica, arrivando ad oltrepassarli come una vera opera d’arte, per sfociare nello spettacolo del teatro.

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