Talking Heads
Remain In Light
Quattro cyber-stregoni africani ti fissano dalla copertina: uno è pazzo, laltro arrogante. Il terzo è nero di rabbia, davvero incazzato duro, ma fortunatamente lultimo sembra volerti consolare. Sarà per il rossetto. O forse per quegli occhi, così dolci anche dietro quel mascherone per nulla rassicurante. Il quadro nel complesso risulta quantomeno disorientante. Allarmante, forse. Oltre che, per tanti versi, inguardabile. Cosa si nasconde dietro a questa immagine? Be, cè scritto. Sono i Talking Heads. Si legge in alto sulla copertina, anche se le due A si sono cappottate in seguito ad un segreto rito voodoo. E lalbum è Remain In Light. Si legge in basso sulla copertina. Una piccola e timida intrusione che non vorrebbe disturbare nessuno. Ma è inevitabile non cogliere il contrasto del titolo con loscurità dellimmagine che lo sovrasta. Unimmagine che diventa storia, miscelando per la prima volta fotografia e computer grafica ed aprendo la via allelaborazione digitale che oggi imperversa in ogni campo della comunicazione.
Pietra miliare già dalla copertina. E se David Byrne può essere la mente che sta dietro al progetto musicale (che in realtà ha in Brian Eno un secondo elemento fondamentale - si pensi alla parallela produzione di un altro capolavoro come My Life In The Bush Of Ghosts, di Byrne ed Eno -), la copertina vide il coinvolgimento in prima persona della bassista Tina Weymouth e del batterista Chris Frantz. Attraverso conoscenze al MIT di Boston riuscirono ad avere su floppy disc una serie di fotografie che furono girate al designer ungherese Tibor Kalman. Questi sovrappose le maschere tribali sui volti dei Talking Heads, che rimasero esterrefatti ed entusiasti. Byrne disse, nel 1995, che sembrano maschere africane disegnate da qualche bambino al computer. Una specie di techno-maschere che nascondono alla perfezione la musica del disco. Ed in effetti lo stesso lavoro oggi lo potrebbe fare un bambino di cinque anni sul PC di casa, ma sono passati 29 anni, e direi che è unottima giustificazione. Limmagine scelta per il retro-copertina fu vista da Tina e Chris al MIT come esempio di manipolazione al computer. Raffigura uno stormo di caccia statunitensi Grumman TB-3 Avenger in volo. La foto fu scelta perché cinque di questi aerei scomparirono nel 1945 sorvolando il Triangolo delle Bermuda. Una storia spettrale ed enigmatica che poteva raccontare molto bene il sound dellalbum, dirà ancora David Byrne, anni dopo la pubblicazione del disco.
Parlare di Remain In Light comporta il grosso rischio di non riuscire a trasmetterne adeguatamente la grandezza. Se uscisse oggi o in un qualsiasi domani, suonerebbe comunque come uno dei dischi più innovativi di sempre. Apice del percorso che ha visto il funk cerebrale dei Talking Heads miscelarsi con la genialità del produttore Brian Eno, è il quarto album della band e lultimo di un percorso quadriennale straordinariamente nitido, iniziato nel 1977 con il memorabile esordio Talking Heads: 77 (Sire, 1977) e proseguito poi con More Songs About Buildings and Food (Sire, 1978) e Fear Of Music (Sire, 1979).
Remain In Light (Sire, 1980) è il suono di unorchestra funk di un futuro indefinibile e definitivo. La perfetta sintesi, esplicata in maniera quasi figurativa come si conviene in un contesto pop-art, fra nevrosi urbana occidentale e primordialità africana, espressa attraverso un uso tribale ma moderno delle percussioni, delle chitarre schizzate, dei bassi che rimbalzano dappertutto su sgargianti tappeti sintetici e dei cori propiziatori alternati a strofe perlopiù declamate in stile predicatore. Ed ecco i tre punti fondamentali da cui origina il sound unico del lavoro: 1) il concetto di fusione, musicale e non solo, qui applicato agli elementi della new-wave di stampo newyorkese (e del circuito Cbgbs in particolare). Tali elementi vengono vivificate dalla natura danzante del funk e della disco e da quella tribale della musica africana 2) in termini di struttura e composizione le canzoni sono minimali, incentrate su groove di singoli accordi e non più sulle armonizzazioni degli stessi. I pezzi si fondano su basi ritmiche strumentali che si sviluppano e ruotano intorno ad un singolo centro tonale. Gli strumenti sono tutti suonati in modo percussivo e spesso il basso resta uguale per tutta la durata del brano. Alla base di una simile applicazione cè ovviamente la dance, che al tempo andava veramente forte. La costruzione del groove è invertita, muovendosi dal basso (dal tappeto sonoro) verso lalto (elementi armonici e melodici) e non viceversa. 3) la parte vocale prende le mosse dalla esortazioni evangeliche dei predicatori radiofonici e dalla forma tradizionale delle prediche religiose, in cui al sermone si alterna, come conseguenza spontanea, la canzone corale.
Questo tipo di lettura è facilmente applicabile praticamente a tutti i brani di Remain In Light, con lesclusione di un paio di pezzi nella seconda metà del lavoro. Le strofe sono declamate come da un invasato: glossolalia, si chiama. E quando uno parla posseduto da uno spirito, con la possibilità di esprimersi anche in lingue a lui stesso sconosciute. Questo collegamento esterno è alla base della poetica di David Byrne. Esplicativa, in questo senso, una sua dichiarazione: Lascio che le parole scorrano liberamente. Spesso non so cosa significhi una canzone fino a che non è finita. Certe volte non so di cosa parlino, ma hanno una specie di risonanza. Mi dicono qualcosa, o toccano qualcosa, anche se non saprei dire di cosa si tratti esattamente. Si potrebbe pensare che non so cosa sto facendo, ma non credo sia così. Se sei in grado di seguire il tuo istinto, allora vuol dire che sai cosa stai facendo. Ed essere in grado di interpretare il risultato è un tipo di competenza del tutto diversa. Da più parti si è inteso leggere nei testi di Byrne una sorta di ovvietà, di banalità nelle affermazioni sul mondo, come se venissero fatte da un alieno che per la prima volta osserva il nostro pianeta. Del resto, allintervistatore intellettualoide che gli confida che il suo verso preferito è there is water under the ocean (in Once In A Lifetime) lui risponde: Sì, è un verso un po stupido. Era così scontato. E quando il giornalista insiste dicendo che la musica rende quel verso davvero significativo, taglia corto: Sì, fa davvero sembrare che unidea così stupida sia realmente profonda. A questo punto ognuno potrà farsi unidea di quanto seriamente Byrne si prendesse, o di quanto seriamente prendesse il giornalista.
Per quanto riguarda il processo di creazione musicale, è ancora Byrne a descrivercelo in prima persona: I brani del disco sono tutti nati da improvvisazioni. Per Once In A Lifetime allinizio avevo solo una frasetta di chitarra e poco altro, ma abbiamo finito con laccumulare quintali di roba sul nastro. Se la suonavi tutta in una volta sentivi una cacofonia, ma le tracce erano più o meno nella stessa tonalità. Re o sol, o qualcosa là in mezzo. Abbiamo creato le varie sezioni della canzone aggiungendo e togliendo le singole tracce. Dicevamo, per esempio: queste otto tracce entrano nel ritornello e poi spariscono di nuovo quando parte la strofa, e a quel punto attaccano questi altri strumenti. Ma in realtà gli stessi strumenti suonano per tutto il tempo. La struttura è stata creata al mixer. Innovazione, dunque. Nella composizione, negli arrangiamenti, nel suono e nella vocalità. Innovazione nel metodo, nel concetto stesso di creazione musicale. Innovazione così spontanea da apparire quasi fortuita, fuori dal controllo degli artisti. Ma ovviamente così non è. Sperimentare significa spesso produrre lavori alieni e pressoché impresentabili allascoltatore medio. In questo caso la sperimentazione produce un lavoro definitivo, di immediata fruibilità commerciale, come se fosse iniziata e terminata (trovando quindi la sua forma di realizzazione perfetta) nello spazio di un solo disco. Il senso di precarietà dei concetti, di ironia nellapproccio e di casualità dei risultati si traduce nel disco in una indescrivibile profondità e stratificazione sonora, in una perfezione nellequilibrio degli opposti che non verrà forse mai più eguagliata e che troverà espressione anni dopo nel suono post-umano dell house, di cui i Talking Heads saranno ispiratori.
I primi tre pezzi sono sconvolgenti, e bastano da soli a mettere sul palco ciò che in questo disco è contenuto. Born Under Punches (The Heat Goes On) apre le danze, nel vero senso della parola. Un funk imbizzarrito, da far gola ai Red Hot Chili Peppers dei vecchi tempi, con basso snappato fuori controllo e percussioni sincopate a scavare buchi in cui cadere. Il cantato di Byrne nella strofa sembra linvettiva di un matto da piazza di paese, mentre il ritornello si apre a cori morbidi e oscuri, rassegnati, che costituiscono lesatto complemento del parlato. Latmosfera è davvero quella della giungla. Sembra di scostare due felci per assistere al rito di una sconosciuta popolazione indigena. Ci sono anche bestie di tutti i tipi che si muovono nellombra intorno al villaggio. La più misteriosa si segnala nellassolo digitalizzato di metà pezzo.
Follia, che si impasta per quasi sei minuti di basi, sostituendosi e sovrapponendosi negli elementi fino a svanire in un fade che apre le porte al seguito. Crosseyed And Painless riprende più o meno sulla stessa linea, con un ritmo più quadrato e regolare a cui si contrappone un basso che invece se ne frega, e che fa un po quello che gli pare quando gli pare. Byrne si da una regolata, toglie un filo di pathos per aggiungere ritmo alla scansione vocale e trova un ritornello che sa di ballo nei cieli, di droga che ti ha preso bene, probabilmente benissimo. Qua e là, come in tutto il disco, succede di tutto. Un po di rap, schitarrate affilate come la falce della Morte, precipitazioni sintetiche che regolarmente ti trovano sprovvisto di ombrello. La tensione sale con The Great Curve, che nei suoi quasi sei minuti e mezzo trova lo spazio anche per un paio di solo al limite del metal (cè Adrian Belew a supportare il Talking Heads Jerry Harrison). Stessi elementi, con chitarra mordi e fuggi che rimbalza pallate sintetiche in arrivo da ogni parte. Unurgenza che non lascia scampo. La stratificazione vocale è teatrale, impressionante e crea unimpalcatura che ancora oggi non si è finito di capire da che parte vada guardata. La leggerezza di Once In A Lifetime arriva allora a portare un minimo di sollievo.
Forse la più celebre canzone dei Talking Heads, è un semplice ritmo che sorregge lo scorrere di suoni digitali privi di un qualsiasi proposito armonico e melodico. E un fiume placido, quieto, ma infido su cui Byrne snocciola una sfilza di luoghi comuni che poi commenta nellesplosione funk del ritornello, con un cantato che sa tanto di osteria e fiaschi di vino e secondo me anche molto di presa per il culo. Houses In Motion declina il reggae nel linguaggio pop-art della new-wave newyorkese e crea la prima, appena percettibile, rottura nel tessuto del disco. Un parlato dimesso, che smette di essere spaccone per illuderci qualche istante. Poi ecco che torna il predicatore, allimprovviso, urlando come per scuoterci da un apparente ritiro. Dietro di lui segue un elefante. Lo interpreta il grande Jon Hassel con la sua meravigliosa quanto incredibile tromba. Basterebbe questo momento a giustificare la conservazione di un pezzo così in un freezer eterno. La rottura diventa evidente con larrivo del minimalismo pre-house di Seen And Not Seen. Basta alternanza di voci e personaggi, basta arroganza e sfrontatezza nei toni. La voce è una riflessione, un sussurro, una confessione deposta in un flusso elettronico. Non cè più lurgenza iniziale, si è smarrito in buona parte anche il piglio funk. Ma se volete trovare le radici del suono Morr Music (Lali Puna e soci) siete molto vicini ad un elemento fondante. La successiva Listening Wind è il pezzo più psichedelico del lotto ed è quello che più ho amato nella mia adolescenza. Ballata oscura ed intimista, che nel titolo si autodefinisce alla perfezione, relega il funk sullo sfondo per preferirgli sonorità arabeggianti ed eteree, tristissime, che si impigliano sul ritmo e subito scivolano via, turbinando come foglie nel vento. Il ritornello è un viaggio dentro se stessi oppure lontanissimo da se stessi. Ti ubriaca, senza bisogno di spendere soldi e ti assorbe, ma offrendo e non sottraendo. E uno di quei pezzi che normalmente, quando inizia, si smette di parlare. La chiusura è affidata alla lugubre The Overload. Lentissima, sorprendente in questo contesto, è una tenebrosa esplorazione dark travestita da ballata. I fantasmi freddi di Nico in viaggio con i Joy Division e i Bauhaus, per un traguardo illusorio e tragico da raggiungere a cavallo di flussi sintetici ostili.
Ci ritroviamo, al termine dellascolto, nudi e sudati. Da qualche parte il nostro ufficio deserto ci reclama. Siamo scesi per le strade della City a danzare con i visi dipinti e le ossa nelle orecchie. Ne è uscita unorgia bestiale che ha mandato in pattume la nostra ordinaria compostezza, ha svilito i nostri sogni da due soldi, ci ha imposto la riorganizzazione dellordine degli istinti. E poi ci ha lasciato lì, crudelmente, a riflettere sulla condizione disumana che confondiamo con il progresso.
Remain In Light compie trentanni a breve. Per attualità, potrebbe ancora dover uscire.
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