The Feelies
Crazy Rhythms
Ragazzi ordinari, con vestiti e tagli di capelli del tutto ordinari. I Feelies potrebbero, di primo acchito, essere descritti anche così, dando uno sguardo fugace alla copertina del loro primo, strepitoso album, a testimoniare di come, checché se ne dica, sposare un’immagine che in un modo o nell’altro riesca a fare presa è ben poca cosa se questa non è supportata da un’adeguata e qualitativa proposta musicale.
I nostri infatti, all’epoca sono collegiali della borghesia media dagli studi ben avviati, intellettuali in erba eppure già con le idee chiare, e hanno già bene a mente di concentrarsi, oltre che sugli studi, sulla musica . Così la band, il cui nome è preso dal romanzo distopico Brave New World di Aldous Huxley (in cui “the Feelies” altro non sono che le più popolari forme di intrattenimento in auge nella società cinicamente dipintavi, sorta di film che stimolavano i sensi della vista, dell’udito e del tatto), si forma nel 1976 a North Haledon, New Jersey, dalle ceneri degli Outkid. Le premesse per concepire qualcosa di interessante, quantomeno, ci sono tutte.
Attorno al nucleo che comprende i chitarristi/compositori Glenn Mercer (principale cantante nonché frontman e vero leader della band) e Bill Million, si stabilizza una sezione ritmica già piuttosto affiatata, John J. al basso e Dave Weckerman alla batteria. I quattro iniziano poco a poco a farsi apprezzare suonando nelle cantine e alle feste, ma i primi due anni sono, inevitabilmente, di transizione, soprattutto se si considera la giovanissima età dei musicisti, ancora alle prese, per forza di cose, col doversi liberare dalle pastoie delle loro influenze: Velvet Underground in primis, ma anche Stooges, Beatles e Rolling Stones; influenze che a onore del vero iniziano a venire filtrate secondo i dettami dei suoni che popolano il sotterraneo di quegli anni, ovvero Pere Ubu e Television: brutta bestia l’alienazione, e i ragazzi devono già farvi i conti, seppure incanalandola nel loro microcosmo. A conti fatti, già viene dissodata la terra da cui germoglierà uno dei capolavori della New Wave (per quanto questa sia una definizione infruttuosa e che nulla aggiunge all’effettivo valore della musica, che anzi in tal caso si emancipa felicemente dagli standard che in quegli anni di fermento prendono considerevolmente corpo) . Ma andiamo per gradi.
L’anno successivo vede la dipartita della sezione ritmica, rimpiazzata più che degnamente da Keith Clayton al basso e Vinny DeNunzio dietro le pelli: i nostri, dapprima idoli indiscussi dei nerds della zona, si fanno valere su più ampia scala meritandosi la palma di “miglior band underground di New York” e facendo breccia nella critica (di come il brutto anatroccolo si fa cigno): il passo per entrare nella storia del rock è ora relativamente breve, pur ancora irto di ostacoli, in parte già aggirati, giacché i da poco non più fanciulli sono pervenuti ad uno stile personale che conquista frotte di addetti ai lavori. Continuano frattanto a fare tirocinio suonando nei posti più disparati, comunque di rado (data la loro ritrosia a darsi in pasto al pubblico, fattore che, in tutta schiettezza, si rivelerà fondamentale per lo scarso riscontro commerciale che i nostri, pure nelle successive reincarnazioni, manterranno) e soprattutto durante i periodi di vacanza.
La loro ricetta è semplice eppure rivoluzionaria al contempo, e inizia a definirsi, pur con le dovute imperfezioni informali, una volta per tutte: suonare rock senza abusare degli stereotipi del genere, trasfigurare la forma canzone secondo la lezione dei Velvet Underground, lambirne il minimalismo (da qui la parentela coi Modern Lovers), condire il tutto con attitudine arty e schizoide (come i primi Talking Heads, ma senza calcare l’acceleratore sul piglio urbano, avendo il duo Mercer-Billion già in nuce una malinconia pastorale di fondo che avrà modo di rivelarsi del tutto, dopo anni di silenzio, con The Good Earth del 1986, ragion per cui, la tenue psichedelia degli R.E.M degli esordi, per ammissione stessa dei quattro di Athens, ne sarà pesantemente influenzata, senza considerare che da un lato finanche i Dream Syndacate debbono essersi ascoltati questo Crazy Rhythms ed averne quantomeno catturato l’anima post-folk ).
Per cui ai Feelies riesce un’impresa senza precedenti, ovvero di come creare qualcosa di nuovo, originale e mai sentito prima, pescando direttamente dalla tradizione, a cui si sentiranno sempre legati (basti pensare alla proposta di cover, specie dal vivo e spesso e volentieri migliori dell’originale) ed allo stesso tempo sperimentando in maniera chirurgica sulla forma canzone, con l’anemia di chi è sempre ad un passo dal compiere il gesto risolutore ma che non ha mai la volontà ultima per metterlo definitivamente a segno (un po’ come le pieghe che assume il nichilismo dostoevskijano, specie nei Karamazov, ovvero rinviare all’infinito il senso della vita, che è un po’ come sapere che si sta comunque andando a puttane ma ragionandoci sopra a mente fredda).
Nel 1978 la line-up si assesta su quella di lì a due anni pubblicherà l’album: alla batteria Anton Fier dagli Electric Eels (semplicemente uno dei più grandi di sempre) si avvicenda a De Nunzio. Ora i Feelies sono pronti per il grande salto, sebbene solo nel 1979, e per la Rough Trade, pubblichino il primo singolo, "Fa Cé-La", eppure di lì a breve firmeranno per la Stiff. Registrato tra la primavera e l’estate del 1979 ai Vanguard Studios di New York, il disco vede la luce solo nell’aprile del 1980. Mai attesa si era rivelata più proficua.
Il disco parte fortissimo con quello che potrebbe essere l’inno di tutti i nerds ,“The Boy With The Perpetual Nervousness”: carezze iniziali di Anton Fier, poi parte la progressione impareggiabile dello strimpellio delle chitarre del duo Mercer/Billion, e subito si nota un’asciutezza che conquista: è celebre l’aneddoto che narra di come i nostri ebbero l’idea di collegare le chitarre direttamente al mixer senza usare gli amplificatori, idea che si rivela vincente, il suono è allo stesso tempo vibrante, sconnesso e pulito, il marchio di fabbrica dei Feelies. La sezione ritmica fa letteralmente paura, scarica di poliritmi da parte di Fier, basso accattivante sui ricami nevrotici delle due chitarre, e una dichiarazione che sa di confessione sconsolata (“The boy next door is into better things , as far as I can see, the boy next door is into bigger things, the boy next door is me”).
Si prosegue con la già citata “Fa Cé-La”, apparentemente scanzonata, ma agghiacciante nelle geometrie, peraltro ancora più efficaci nei brani successivi, e in una strofa, (“Break the silence with the screaming head, everything is alright, break the scream with a silent void, everything is alright”), che contribuisce a svelare ulteriormente la loro poetica, essenziale e mai auto indulgente quanto quella di Tom Verlaine, ma del tutto priva di un afflato che sia vagamente “lirico”.
Il disco gioca sul filo della sacra e bilaterale proprietà accumulazione – sottrazione, atta a creare un effetto che disorienti: di come si possa suonare “saturi” senza essere corposi, complessi senza virtuosismi fini a se stessi, astratti, anemici, di come suonare canzoni senza i banalissimi tempi in 4/4 del mainstream (uno dei semi più fecondi del post – rock viene piantato anche da loro, checché se ne dica …). “Loveless Love” (oltre che una delle canzoni più belle mai composte per lo scrivente), tocca un vertice delle loro abilità sopra citate: chitarre ancora una volta secche eppure impregnate di ansia, squillanti, un’assolo iniziale che strazia l’anima, un impeto che sarebbe selvaggio se non fosse modulato dalle astrazioni della sezione ritmica e dal canto androide e stralunato di un Mercer in vena di altre confessioni, pur spiattellate all’ascoltatore col solito piglio ermetico (“You don't want to know me, it's seems as though that's never done, what I'm seeing as homeless, you're seeing as” … “Loveless love, is not my plan, loveless love, said it isn't romance, loveless love, you think it's cool I think it stinks, loveless love, you don't care what I think”).
“Forces at Work” è un altro dei vertici assoluti del loro genio, in particolare la loro musica si rivela ancora una volta libera e senza etichette, l’ansia che comunicano è spasmodica, parossistica, le chitarre incalzano cumulando detriti di accordi e le sezione ritmica completa con la solita, immensa maestria … il batterismo di Fier in particolare, sfiora il miracolo, dà l’impressione di implodere su se stesso ogni istante, stupisce per come si mantenga serrato e tempestoso concedendo sempre ampiamente al raziocinio e alla precisione, il brano scivola denso e nervoso, ma in maniera fluida, l’effetto è davvero come è stato dipinto da altri: straniante, impareggiabile, crudo.
Altri strimpellii da loro prassi ormai consolidata, fanno quasi da intro ad “Original Love”, ancora una volta, le chitarre di Mercer e Billion si intelaiano a meraviglia, si impennano dei loro e nei loro riverberi, suonano da mistici della terra; infatti hanno dalla loro già la ricerca di una matrice folk che possa in un modo o nell’altro salvarli dall’alienazione, che senza farsi attendere fa capolino anche in questo brano. Pochi secondi, il tempo di un battito d’ali e si riparte col consueto mood, pennate secche e vibranti, e un Mercer più che mai moribondo ed in colma nevrosi, pure timido e propenso all’implosione più che mai (“Your voice raised in anger, who knows what you're after , you don't know what you're after, you never seem to notice, the distance between us, the distance…”), come se avesse reso l’anima al suo tempo, o semplicemente abbia perso la voglia di lottare. L’assolo conseguente è un turbine, per quanto di breve durata, che non lascia scampo alcuno: per quanto originale, questo amore è illusorio, e ha inevitabilmente fallito.
Strana commistione di espressionismo e suprematismo, di psichedelia e astrattismo geometrico alchemicamente ben fusi, la loro musica si fregia dei connotati della vera arte, avendo in sé e per sé il seme dell’innovazione nell’incavo della tradizione: a tale riprova, riescono a rendere la beatlesiana “Everybody's Got Something To Hide (Except Me And My Monkey)”, trasfigurata dalla loro prassi, di gran lunga migliore dell’originale.
Si scivola lievi verso il brano dell’album che più di tutti incarna lo spirito dell’epoca muovendo dal microcosmo per ricomprendere un macrocosmo che sembrava non appartenergli. “Moscow Nights” è un altro saggio della loro dialettica e della loro arte contrastiva, laddove la sezione ritmica, detta le geometrie del brano, mentre le chitarre, ora sullo stile d’accompagnamento alla Sterling Morrison ma più asciutte, ora folkeggianti, ora in preda a convulsioni, chitarre protagoniste finanche dell’ultimissimo frangente del brano (tesissimo esempio di post-folk). La tensione è spasmodica come non mai, ci si cala maledettamente nel clima da Guerra Fredda che si sta riacutizzando proprio in quegli anni (del resto alla presidenza Reagan mancano di fatto pochi mesi …), in tal senso le parole di Mercer sono emblematiche (“All you really wanted,
was to be alone at least a little while, how was I to know that, well it seemed like an eternity, when you smile and say,"I thought about it, it's the right time" and I expect that, you're never returning to the USA”).
“Raised Eyebrows”, quasi del tutto strumentale, sviluppa ulteriormente il lato nervoso del loro sound, chitarre strimpellate con veemenza, con un Billion che accompagna in maniera fantastica il delirio di Mercer, mai così tirato; ma questo brano è anche capolavoro di Anton Fier e del suo batterismo free-form, come riesca a declinare libertà assoluta e istinto dionisiaco alla freddezza e alla precisione metronimica cui ha abituato, rimarrà per lo scrivente uno dei più grandi misteri della storia del rock. Si ha la sensazione che, a chitarre interamente “sedate”, il suono dei Feelies sia pura astrazione.
A questo punto, non resta che sigillare ad hoc un’opera di per sé monumentale; la title-track è, senza retorica, lo zenith della loro arte di contrapposizioni che vengono ricomprese l’una nell’altra: la sezione ritmica ovviamente, non può farsi da parte (specie alla luce del titolo del brano…) dando ennesima prova, qualora ce ne fosse stato bisogno, di come da una razionalità di partenza, si possa pervenire ad un delirio sfrenato e folle che la rimastichi secondo un’ottica del tutto opposta. Coi Feelies, il manicheismo va definitivamente a puttane. Di come la sostanza riesca ad essere incalanata in una forma che parrebbe non poterle mai appartenere. Le chitarre, si incastrano ancora a meraviglia, non dando punti di riferimento e stravolgendo il concetto di armonia applicato alla forma canzone. Un cratere, letteralmente, dai cui solchi in molti verranno rivendicando il loro spazio dal sotterraneo.
Detto che la successiva versione in cd dell’album contiene una cover di “Paint It Black”, tuttavia registrata nel 1990 da una formazione a cinque che di questi Feelies conserva i due chitarristi e leader, e detto che, anche questa cover (per il sottoscritto, beninteso…), riesce a superare l’originale, non resta che godere di questo gioiello. I Feelies riescono qui a coniare un linguaggio musicale ardito e umile allo stesso tempo, muovendo dal folk e dai Velvet Underground e da certi elementi kraut (a onor del vero, più Neu! che altri, ma con un tocco “metafisico” memore dei Popol Vuh, paragone azzardato forse), raccogliendo la lezione di Television e Modern Lovers, declinando la nevrosi moderna in maniera diversa dai Talking Heads, prendendone forse spunto, ma lasciando spazio all’ascetismo e, perché no, anche al sogno … a conti fatti, una delle più grandi band di sempre. Mercer e Billlion spariranno per qualche anno, suonando occasionalmente nei soliti posti poco battuti (di frequente al leggendario Maxwell’s di Hoboken), e reincarnandosi in più formazioni e progetti prima di riprendere le redini dei Feelies solo nel 1986 con “The Good Earth” ed un’altra, ampiamente rinnovata formazione. Ma questa è, manco a dirlo, un’altra storia …
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