V Video

R Recensione

9/10

Wall Of Voodoo

Call Of The West

Nel continente nero su radiofrequenze messicane.

 

“Faremo grandi cose con il Farfisa vintage e le tastiere! Hai presente Phil Spector, i Kraftwerk, Raymond Chandler, K. Dick e Morricone? Ecco, voglio qualcosa del genere. Sarà la colonna sonora ideale di un film che non esiste. O meglio: esiste solo nella nostra testa.” “Già fatto, Stan. Con la differenza che gli Steely Dan sono dei piacioni buoni per i locali dell’Upper East Side e per rimorchiare qualche modella apparsa su Harper’s Bazaar mentre tu sei un nevrotico fissato con Sergio Leone.” “No, no, no, cazzo! Ascolta. Avremo un suono denso, meccanico, polveroso. Sarà unico e proiettato nel futuro come la Tucker Sedan del Quarantotto, altro che le patinate nostalgie fighette di Fagen & Becker.” “Ho capito, ma lascia stare Jack Nitzche e le libidinose manfrine spectoriane. Tu cerchi un wall of voodoo, amico.” Non ho la DeLorean al plutonio che usava Marty McFly e nemmeno le capacità esoteriche del mago Gabriel, mai visti gnomi in vita mia, perciò in assenza di prove attendibili il dialogo tra Stanard Ridgway e Joe Berardi dei Fibonaccis provo a immaginarmelo così, con il musicista di Barstow che se la rideva sotto i baffetti finti per aver trovato al volo qualcosa d’importante. Il nome strafigo della sua prossima band. Succede che quando penso alla stramba nascita di uno strambo combo “wave” vengono fuori loro, il Muro del Voodoo e il suo beneamato artefice mr. Ridgway, un tipetto sveglio che nel tardo ’77 (dopo un breve passaggio nei Flesh Eaters) avrà l’occasione giusta per fiutare l’aria della nuova ondata post-punk. I Wall Of Voodoo hanno infatti origine presso l’Acme Soundtracks, una piccola compagnia di colonne sonore per b-movies avviata dallo stesso Stan e che aveva gli uffici nei dintorni del noto punk club losangelino The Masque. Ciò che seguirà di lì a pochi anni deve essere stato un improvviso shock sottocutaneo per la stanca risacca pop dell’epoca, come la sparachiodi di Javier Bardem poggiata sul cranio.

 

Il segnale radio è scomparso, ci penserò domani.

 

L’incontro fra il giovane tecnico sonoro dell’Acme, affamato di matinée cinematografiche e del Bowie mitteleuropeo, e il chitarrista degli Skulls Marc Moreland è l'anticamera a una proficua collaborazione che trasformerà l’azienda nell’ennesima variante new-wave, un nuovo, stimolante progetto che verrrà assemblato con l’altro Moreland, il fratello bassista Bruce, Chas T. Gray alle tastiere e il drummer dei Black Randy & The Metrosquad Joe Nanini. L’ep omonimo dell’Ottanta e la robotica cover della “Ring Of Fire” di Cash prospettano già gustose possibilità confermate l’anno seguente con il vero esordio su IRS, l’eccellente “Dark Continent”, un western sci-fi alla Crichton che alle orecchie dei puristi suonerà stravagante punto d’intersezione di electro-americana. È un mondo disumanizzato quello che ci racconta sarcastico Ridgway, protagonista il tipico uomo-medio ingabbiato dalle ansie metropolitane prodotte dal Sistema (“…And i got another factory back home. I got a barbeque, pink mustang, fenders chrome and at nine o'clock i sit there in my chair…And i don't know why i lose my hair, and then i go to…And then i go to sleep.”), un luogo ostile di orwelliane paranoie che guarda al passato per controllarti il presente. “Tomorrow”, “domani”, è la parola-chiave nel lessico musicale dei WOV, un ibrido retrò-futurista dove il pulsare tecnocratico delle macchine ha rimpiazzato il lento battito umano, un ritmo elementare, ripetitivo e apparentemente innocuo da jingle televisivo, che chiama a raccolta le menti confuse degli oscuri tempi moderni attraverso il felpato tocco rockabilly della sei-dodici corde Devoluta di Moreland, una sorta di Arto Lindsay tex-mex esiliato a Tijuana tra cactus e tequila, e nell’aspro intercalare nasale-predicatorio di Ridgway (Les Claypool ne farà un modello). Nel domani più immediato dei Wall Of Voodoo c’è il richiamo atavico del vecchio West, un original soundtrack di nevrosi urbane e racconti pulp che porterà a completa maturazione quel suono “nuovo” e visionario preconizzato dal frontman un lustro prima, è purtroppo rimarrà un canto del cigno senza degni eredi ma piuttosto figli e figliastri incerti (su tutti, neanche a dirlo, emergerà la costanza solista del dimissionario leader, nobilitata dall'ottimo “The Big Heat”).

 

“…They don't want me. They used to want me, but they don't want me anymore…”

 

“Call Of The West” va alle stampe nel 1982, ultima rimarchevole chiamata di una new-wave giunta ormai alla fase terminale, e molto della sua perfezione formale e epidermicamente pop, che impianta un cuore al titanio nella tradizionale schematicità country-blues a stelle & strisce, è in parte merito del buon Richard Mazda, vero quinto elemento aggiunto all’organicità minimale dei Wall Of Voodoo(sostituirà al basso il posto vacante di Bruce Moreland, con Louis Rivera alle percussioni insieme a Nanini). “Cavernicoli alle prese con tecnologie moderne”, secondo un'autodefinizione dello stesso Ridgway, che avevano trovato il produttore giusto a esaltare ogni singola nota della loro originale formula algebrica, moltiplicando un naturale istinto melodico (dote rara, rarissima). Lungo l’Interstatale e la Frontiera-Eldorado tratteggiate dal picaresco dlin-dlon diddleyiano (“Spy World”) ricorderemo così i giorni dimenticati di un “Lost Weekend”, errabonda e magnifica ballad pregna di umori hard-boiled e sinuose linee di synth vicina alle desolate penombre Tuxedomoon (coetanei colti e avantgarde, più Philip Glass-Lynch che Dimitri Tiomkin-Coen), e il fotogramma apatico dei clangori-loop industriali di “Factory”, che fa alienata catena di montaggio del progressista “man-machine” teutonico. La “Mexican Radio” , l'unica hit di Ridgway & co. sugli schermi al neon della giovine MTV, viene preannunciata dalle schizofreniche note analogiche di un elaboratore elettronico in tilt, ed è una memorabile tarantella post-moderna che smitizza a colpi di drum-machine, armonica spaghetti-western e paciose dissonanze electro-pop il Big Country del grande sogno consumista, indicando il percorso accidentato (“Hands Of Love, “On Interstate 15”), a tratti claustrofobico e inquietante in “Look At Their Way” e nel darkwave cibernetico tendenza Suicide “They Don’t Want Me”, di un cartoonesco road-movie naif, che arriva anche a ipotizzare le suggestive sinapsi dei Calexico, tra folate synthetiche kraute e vecchie litografie roots (“Call Of The West”). L’asfalto brucia sensazioni techno-noir su pellicola 35 mm. Fai l’autostop con il cravattino stretto di Stan, qualcuno si fermerà. Il West è a un passo. Il West è il domani.

 

“…The hot mojave and the jericho he'd start his whole life anew, and what he'd left behind he hadn't valued half as much as some things he never knew…”  

V Voti

Voto degli utenti: 8,5/10 in media su 18 voti.
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Teo 9/10
4AS 8/10
REBBY 9/10
B-B-B 9/10
Vatar 9/10

C Commenti

Ci sono 7 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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SamJack (ha votato 8 questo disco) alle 7:34 del 5 gennaio 2012 ha scritto:

Album strepitoso, se la gioca quasi alla pari con "the big heat"...

NathanAdler77, autore, alle 22:41 del 11 maggio 2012 ha scritto:

RE: se la gioca quasi alla pari con "the big heat"...

Non sono d'accordo, questo e il quasi pari "Dark Continent" viaggiano su ben altre frequenze, insuperati esempi di wave-desertica con riflessi dickiani. "The Big Heat" rimane un pregiato esordio solista, che conferma tutta la classe d'autore di Ridgway, pur avendo una produzione non proprio immacolata, tipica dell'epoca.

benoitbrisefer (ha votato 8 questo disco) alle 17:56 del 5 gennaio 2012 ha scritto:

Decisamente una delle cose migliori in un panorama wave ormai in fase declinante (anche se nell'82 non mancarono le uscite importanti: vedere commenti a joe jackson per credere)

REBBY (ha votato 9 questo disco) alle 18:24 del 5 gennaio 2012 ha scritto:

E The big heat (1986), primo album solista di Stan Ridgway è ancora meglio.

4AS (ha votato 8 questo disco) alle 20:33 del 5 gennaio 2012 ha scritto:

8 a questo, 10 a The Big Heat (Rebby ha ragione). "Factory" è la mia preferita, stupenda, ipnotica, desertica...

Hexenductionhour (ha votato 9 questo disco) alle 13:50 del 12 novembre 2012 ha scritto:

Album grandioso e band piuttosto sottovalutata, l'incontro tra l'alienazione metropolitana e la frontiera, gli ampi spazi aperti dell'ovest Americano, il deserto, il tutto cantato da un grandissimo e ispiratissimo Stan Ridgway e da una band seconda a nessuno, molto originale il sound della chitarra di Moreland stile chiaramente ispirato alle "suite" Morriconiane, originale anche il misuglio tra sonorità quasi elettroniche e strumenti tradizionali...le sonorità sono molto originali ma allo stesso tempo distinguibili, una band forse unica nel panorama mondiale e purtroppo non ci saranno più altre band simili. Ma neanche me ne dispiaccio, i capolavori sono tali proprio perchè sono unici e quest'album non mi stancherò mai di ascoltarlo.

bill_carson (ha votato 9 questo disco) alle 15:25 del 2 dicembre 2012 ha scritto:

capite dall'avatar che sono di parte