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R Recensione

6/10

Motorpsycho & Ståle Storløkken

En Konsert For Folk Flest

Se date granaglie ogni giorno ai passeri e ai merli selvatici, questi non tarderanno ad abituarsi e ne esigeranno quantità sempre maggiori. Se per anni andate dicendo che Giovanni Allevi è il nuovo Bach, è conclamato che il diretto interessato (quello ancora vivo, naturalmente) si affezionerà al paragone e lo sfrutterà a proprio vantaggio ogni qualvolta se ne presenti l’occasione. Un esempio recente? La presentazione di quell’aborto da Martinelli di sesta mano che è il nuovo inno della Serie A, “O Generosa!”, un (impropriamente definito) madrigale in latino ed inglese, musicalmente nullo, tagliato su misura per la generazione Renzi. Persone di buon senso, davanti a cotanta fatica intellettuale, avrebbero concesso la grazia di quel silenzio definitivo che solo il disprezzo assoluto è in grado di ricreare. Non, naturalmente, i giornalisti italiani. Ecco che veniamo a sapere che, nel vangelo secondo Allevi, lui e Bach sarebbero artisticamente vicini, in quanto entrambi hanno avuto modo di comporre su commissione. Ma come ho fatto a non pensarci prima? È assolutamente evidente!

Anche i Motorpsycho, che risiedono tremila chilometri a nord di Ascoli Piceno, hanno scritto musica a tavolino. La prima volta, nel 2012, fu con “The Death Defying Unicorn – A Fanciful And Fairly Far-Out Musical Fable”, un ambiziosissimo e riuscito doppio, scritto ed arrangiato con l’aiuto di Ståle Storløkken dei Supersilent, della Trondheim Jazz Orchestra e del violinista Ola Kvernberg. Il lavoro, di cui parlammo abbondantemente all’epoca, era stato in origine richiesto dal Molde International Jazz Festival per il cinquantesimo d’attività. Oggi arriva la seconda, “En Konsert For Folk Flest”. La sola virata cromatica (dal bianco al rosso) di una copertina graficamente speculare alla precedente è giustificata dalla motivazione soggiacente al progetto: si tratta della registrazione dell’esibizione tenutasi, il 31 luglio 2014, nella Nidarosdomen di Trondheim, loro città natale, evento di punta del locale St. Olaf Festival. La line up, ça va sans dire, è allargata a Storløkken (fondamentale, ancora una volta, il suo apporto), agli Sheriffs Of Nothingness (già co-arrangiatori di “Ghost”, sull’ultimo “Behind The Sun”) e a un coro di ventiquattro voci, il Kammerkoret Aurum: le liriche, novità delle novità, sono interamente in bokmål. Il disco, un doppio vinile 180 g stampato in duemila copie numerate, è pensato per essere una riflessione sul tema del “popolo” (in questo ispirato, a quanto la stessa band dichiara, al Manifest For Folk Flest dell’amico Johan Harstad) e viene accompagnato da un booklet di ventiquattro pagine e da un dvd che raccoglie la testimonianza live del concerto, oltre ad un documentario di sessantacinque minuti firmato da Mark Bakker. Dal momento che non siamo riusciti a prendere visione del dvd, a quanti volessero comunque averne un’idea approssimativa consigliamo di ripiegare sulla registrazione dell’edizione del 2013 dell’Orgelfest, tenutasi a Stavanger, dove alcuni dei brani contenuti in “En Konsert For Folk Flest” erano già stati eseguiti.

La nostra generosa si chiama, in realtà, “Grandiosa” e, paronomasie a parte, mai titolo fu più appropriato. È un’unica, grande melodia orchestrale, architettata con gusto barocco del contrappunto (l’incontro-scontro atavico tra le donne angeli e gli uomini demoni…), che rimane sostanzialmente invariata, nonostante un’intensa catarsi elettrica centrale (Comus?), sino al trionfo organistico conclusivo. Nove minuti di happy ending, che riassumono tutti i pregi ed i difetti di un’opera mastodontica, per contenuto e visione d’insieme. Non c’è dubbio che sia il disco più complesso, tematicamente e tecnicamente, cui i Motorpsycho abbiano mai messo mano. L’aumento esponenziale dei due fattori era stata una costante delle ultime uscite, con la parziale esclusione di “Behind The Sun”: ma, se all’epoca avevamo considerato “The Death Defying Unicorn” un punto di non ritorno, dobbiamo qui rassegnarci a spostare ancora più in alto l’asticella. Non è detto sia un bene, giacché l’ambizione è benvenuta solo se non diviene sterile volizione: e tutto, in “En Konsert For Folk Flest”, è troppo. Troppa musica, troppe atmosfere, troppo sfarzo, troppi minuti. Le partiture delle varie componenti, più che cercare fusione ed amalgama, paiono esplicitamente paventare lo scontro, aizzare il disaccordo: si ascolti la maestosa ed elaborata toccata organistica di Storløkken in “Imens, Ved Bipolarsirkelen”, frastagliata dagli atonali a capella del Kammerkoret Aurum, o ancor più la minacciosa concréte gotica di “Fragmenter Av Lys Og Skygge” e i violini ansimanti, fagocitati dai bassi tenori di “Fiere Fragmenter Av Lys Og Skygge”. Non si arriverà a definirla opera, ma molto del suo spirito altisonante è quivi, comunque, tracimato.

Della band principale, senso strictu, c’è poco: prendere o lasciare. Il trademark riaffiora, inconfondibile, in “Mammonumamikoma”, distillato di motorpsychedelia purissima (e parente di alcune recenti, entusiasmanti cavalcate soniche: “She Left On The Sun Ship”, “W.B.A.T.”, “Through The Veil”, “Hell, Pt. 2”, “On A Plate”…) dall’irresistibile ritornello onomatopeico: come lo zeuhl dei Magma suonato col basso distorto dello slacker. Un caso che sia, al contempo, l’estratto dove la collaborazione con Storløkken e con il coro si fa più completa, piena, avvincente? Probabilmente no. Difatti, già la curiosa “Kebabels Tårn”, dove si rincorrono i riff math-funk di Hans Magnus “Snah” Ryan e le fughe doorsiane di Storløkken (Ray Manzarek meets Zoot Taylor), si carica di eccessivo pathos lirico. Quanto ai diciassette minuti e mezzo di “Lykkepilegrin”, sono ben lontani dalle migliori suite dei tre norvegesi: v’è ancora un persistente difetto di forma (gli statici arpeggi blues delle prime battute, il solenne e sostanzioso interplay occulto-doom power trio-organo-coro della sezione centrale) che appesantisce l’ascolto. Un peccato, perché gli ultimi cinque minuti rispolverano una splendida armonia chitarristica (poi anche violinistica, infine organistica) per cuori infranti, degna dei crescendo emozionali degli anni ’90.

L’operazione, finanziariamente impegnativa sia per i Motorpsycho che per i potenziali compratori, è stata coronata da un successo oltre ogni aspettativa: segnale, chiaro ed inequivocabile, di quanto profondo sia oramai il segno lasciato dai Nostri nella storia del rock contemporaneo. In ogni caso, se ancora si riascolta con piacere “The Death Defying Unicorn”, non altrettanto ottimismo gravita attorno a “En Konsert For Folk Flest”: un disco eccessivamente temerario per chi lo ha ideato, eccessivamente esigente per chi scrive, sicuramente fuori dalla portata artistica e intellettuale di Giovanni Allevi.

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swansong alle 12:35 del 10 agosto 2015 ha scritto:

Voto 10 all'incipit ed alla chiosa di questa (solita) ottima recensione del Biasio!!!