Deerhunter
Microcastle
Non c’è delusione senza aspettativa. Perché se è vero, come si dice, che il secondo album sia il più difficile nella carriera di un artista, e altresì vero, aggiungiamo, che dipende molto dalla qualità dell’opera prima.
Prendete questi Deerhunter, ad esempio. Dopo i commenti positivi (e il relativo quarto d’ora di notorietà) ottenuti l’anno scorso con “Cryptograms”, tornano quest’anno con “Microcastle”. In realtà si tratta del loro terzo album, ma poco importa, perché le aspettative erano nate immediatamente dopo l’ascolto di “Cryptograms”. Il nuovo album vira decisamente verso quel pop sognante e psichedelico che costituiva solo uno degli aspetti presenti nell’album precedente. Laddove “Cryptograms” era capace di fondere il pop con elementi noise, ambient e space-rock, “Microcastle” si limita a tratteggiare atmosfere “easy” piuttosto vicine all’altra band di Bradford Cox, gli Atlas Sound.
Non parliamo di un ascolto spiacevole, che si tratti del pop-noise di “Agoraphobia”, “Never Stops” e “Nothing ever happened” (vicine ai Sonic Youth di fine anni ’90, giusto per capirci), del blues di “Saved by the old times” o dei tentativi shoegaze di “These hands”. Il vero problema è che per godere di questi attimi di soddisfazione bisogna subire una sezione centrale (“Little Kids”, “Microcastle”, “Calvary scars”, “Green Jacket”, “Activa”) che è noia pura. E quando la stessa noia riaffiora sul finale (“Twilight at carbon lake”), non si può far altro che fermare tutto e riascoltare i Deerhunter di “Cryptograms”. E magari accorgersi di aver affidato loro aspettative eccessive.
Tweet