Memory Tapes
Player Piano
Prima delle ipotesi, dei "se" e dei "ma", partiamo dalle certezze: l'ultimo disco dei Memory Tapes di Dayve Hawk (chitarra e voce) non è "Seek Magic", esordio col botto dell'americano, e non gli si avvicina neanche lontamente; il capolavoro di due anni fa infatti, manifesto glo-fi per eccellenza, sintetizzava alla perfezione il synth-pop liquefatto dei New Order con una cascata di lacrimoni elettronici a 8-bit dall'incantevole gradazione retro-nostalgica (gli eighties, certo). "Player Piano", per nulla un back to the future, è invece il presente. E cosa dice il presente? Melodia.
Superata senza pensieri l'intro di "Musicbox(in)", appare chiaro fin dalla prima "Wait In The Dark" che la strada intrapresa da Hawk non sarà affatto quella delle lente progressioni chillwave a spasso nel tempo, quanto piuttosto un rapido giretto intorno al quartiere dei Deerhunter, seguendoli nel loro cammino di voci sospese e pop passato al filtro-delay ("Memory Boy" il punto di contatto). Dove però "Player Piano" svolta a destra e sinistra e si differenzia da quest'ultimi è nella pulizia dei suoni, conferma vivissima di quella patina traslucida che ben si adattava anche alle forme di "Seek Magic" e che caratterizzava proprio la particolarità dei Memory Tapes, paradossale per il genere, nel rifiuto più o meno totale della bassa fedeltà. E le basi? Quelle non mancano.
E' possibile, infatti, percepire almeno l'ombra (la classe è ben altra, purtroppo) di quelle digressioni ipnagogiche che tanta fortuna avevano portato a "Seek Magic": l'apertura sintetizzante l'oriente (il fiato che ricorda il nay arabo) e la chiusura leggiadra di "Offers", sulla scia della "Swimming Field" che fu, l'esplosione di wah digitali dopo metà "Wait In The Dark", le distorsioni tremule di "Humming", il finale malinconicissimo e magico di "Worries", così come l'andamento nerd velocissimo di "Trance Sisters" con tanto di coretti angelici per gradire (l'influsso di "Bicycle" presente eccome), sciolto poi in un acido psichedelico anestetizzante. E tocchiamo qui altri due punti importanti: velocità e psichedelia. Il dinamismo che si percepisce fin dall'inizio è sintomo di un'altra trasformazione rispetto al passato, questa volta nella struttura stessa dei brani, che richiama al tradizionale formato-canzone (con ritornello annesso), e che mira a coinvolgere altri strumenti (percussioni e chitarra in primis) e soprattutto la voce, vero e proprio bilancino per il piacere ("Yes I Know") e la noia ("Sun Hits", per vocalismi e ritmo, è una fastidiosa copia di "Today Is Our Life", senza peraltro le gradevoli sessioni chitarristiche della seconda). Tutto appare molto più veloce, conciso, immediato e fruibile, in un processo di scarnificazione del chill-out – che di fatto diventa chill-in, accogliendo una frescura quasi autunnale – e d'integrazione di derive psych-pop (tra MGMT e Avi Buffalo); a venire sacrificato, per contro, è lo spessore e l'inventiva delle basi stesse, che anche quando legate armonicamente bene al distendersi delle canzoni (lo splendido esempio di "Yes I Know", certo la migliore dell'album), mancano sempre di quel luccichìo di genio che faceva brillare "Seek Magic" da qualunque angolazione lo si ascoltasse. A completare l'opera, testi ombreggiati: contrapposti all'immediatezza del cantato, descrivono un profondo senso di isolazione e alienazione mentale, uno stato d'animo senza punti fermi e colori (la copertina uno specchio perfetto)... quasi a voler saltare in blocco, con un grande balzo, l'estate tutta per atterrare qualche metro più avanti, qualche mese più su, a Settembre o giù di lì.
Un disco discreto, dunque, che fa ombra all'estate e che suo malgrado ne riceve altrettanta dall'ingombrante fratello che l'ha preceduto; un peccato, perché senza avrebbe sicuramente potuto darsi qualche aria in più... ma avremmo un capolavoro in meno di cui parlare. E a noi, alla fine, sta bene così.
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