A Storm Of Light
Anthroscene
Piuttosto inusuale, per una band abituata a scrivere e produrre quasi un disco allanno, non dare notizie di sé per un lustro abbondante. Il silenzio inaspettato degli A Storm Of Light di Josh Graham, lungi dal rappresentare la manifestazione terminale di un percorso artistico ben al di sotto delle iniziali aspettative, è servito al bandleader per riordinare le idee (sviluppandone una parte anche nel discreto side project solista IIVII, per il momento articolato nei due lavori lunghi Colony e Invasion) e rifondare da capo la line up, escludendo il batterista Billy Graves in favore del più discreto Chris Common la seconda defezione alle pelli in una decade, dopo il tira e molla con Vincent Signorelli e scegliendo in pianta stabile Dan Hawkins come seconda chitarra. Sono aggiustamenti funzionali alla massimizzazione del risultato finale: dopo anni in cui il messianico vangelo di sciagure di Graham sembrava poco più che unestremizzazione artistica, oggi che il mondo sta muovendo in quella direzione molto più rapidamente del previsto non rimane altro che registrare linvoluzione, senza mediazioni supplementari.
Se Nations To Flames era un disco minimale e sgraziato, Anthroscene ne è lesatto doppelgänger post punk, unantologia di brani che ridotti più ai minimi termini di così davvero non si potrebbe. Si inizia con un elementare riff di chitarra, lo si ripete pedissequamente per qualche minuto (alternandolo o meno con un ritornello, a seconda delle singole esigenze della canzone): Graham copre tutto con il suo rauco salmodiare, accompagnato da una sezione ritmica sempre sul pezzo, precisa negli inserimenti e capace persino di qualche invenzione (il trotto quasi samba di Common sul finale dellintensa Life Will Be Violent). Dopo una partenza invero faticosa e noiosetta, ricolma di stereotipi di genere gli affilatissimi Ministry di Prime Time, i Sabbath post-core di Blackout , la svolta arriva finalmente proprio intorno alla centrale Life Will Be Violent, lineare e volumetrica insieme: seguono poi a stretta distanza lindustrial-goth di Slow Motion Apocalipse (con scaglie grunge che emergono qui e lì dal tessuto melmoso delle chitarre), i Bauhaus marziali di Dim e laliena orchestrazione della coda di Rosebud, uno sludge sintetico che riporta per un attimo le lancette indietro a Forgive Us Our Trespasses.
Sempre più old style, ma con in aggiunta un brano persino orecchiabile, anche se affatto indimenticabile (Laser Fire Forget). Non ci è dato sapere se gli A Storm Of Light siano tornati per restare: Anthroscene ne conferma tuttavia la distruttiva (e un filo velleitaria) volontà di potenza.
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