Breathless
Chasing Promises
La sensibilità con la quale i Breathless hanno concepito la musica è, in qualche modo, heideggeriana in quanto recepisce dal fondamentale filosofo esistenzialista tedesco il concetto di “storicità”, intesa come assunzione dell’eredità del passato, ripresa deliberata e consapevole delle possibilità tramandate, senza che questo significa pura e semplice restaurazione di esse.
Questo è ciò che, a cavallo fra la seconda metà degli anni ’80 e l’inizio dei ‘90 i Breathless hanno scientemente realizzato nei loro dischi, attingendo dal post punk, ormai già avviato, fra 1982 e 1983, >verso una crisi creativa irreversibile, le sue intuizioni più profonde e i frutti più fecondi e, fattili propri, innervandoli e ravvivandoli con nuovi e vecchi fermenti musicali, creando così un prodotto che, se da un lato guarda indietro, dall’altro occhieggia il futuro, rimanendo comunque saldamento radicato nell’estetica del suo tempo.
Che la lezione dei Joy Division e dei Bunnymen sia stata prioritaria nella formazione del suono Breathless ce lo testimoniano gli stessi diretti interessati in alcune recenti interviste: “Sono sempre stata influenzata dal lassismo di Peter Hook… Mi piacevano anche gli Echo And The Bunnymen”, così la bassista Ari Neufeld; le fa eco il chitarrista Gary Mundy che oltre a quella per i Joy Division riconosce la sua predilezione per altre bands seminali della new wave, quali Television, Wire, Only Ones, (a proposito dei quali ricordiamo come gli stessi Breathless ne abbiano riproposto l’incantevole “Flowers Die” in Between Happiness and Heartache), Sound, Chameleons.
Ma questi sono solo una parte dei rimandi stilistici e delle affinità elettive a cui si richiama il suono Breathless: la psichedelia ipnotica e avvolgente di Pink Floyd, Velvet Underground e della scena krautrock (Faust e Can in primis), l’umore inquieto e malinconico delle bands 4AD (etichetta alla quale rimandano sovente anche le scelte iconografiche delle copertine, giocate su dissolvenze cromatiche e cristalline evanescenze formali), quali Wolfgang Press, Dead Can Dance, Cocteau Twins (e appunto in Elisabeth Fraser il cantante Dominic Appleton riconosce la principale fonte di ispirazione) sono tutti tasselli di un complesso mosaico sonoro, fatto di sconfinato romanticismo, dolente introspezione, struggente e accigliata bellezza, che si è venuto componendo di album in album fino alla vetta compositiva di Chasing Promises (1989).
Il disco pur non rinnegando niente delle esperienze precedenti cerca, anche grazie alla produzione di John Fryer, di raggiungere un suono più strutturato e scorrevole, pur articolato in brani mediamente abbastanza lunghi, una dimensione maggiomente pop (nel senso più ampio possibile del termine), stemperando, ma non certo eliminando, gli aspetti più kraut-rock oriented (ripresi invece e accentuati nella produzione più recente della band). Sul tema dell’amore, nell’infinità molteplicità dei sentimenti implicati, cantato dalla struggente interpretazione vocale di Dominic Appleton, sospesa fra metafisiche dolcezze e terrene sofferenze, si sviluppano le otto tracce del disco.
“Compulsion” è opening track di impatto emotivo immediato, sostenuta da avvolgenti spirali di synth e chitarre, fluttuanti su ricche tessiture ritmiche; “Here By Chance” si muove, su territori di onirica e caleidoscopica psichedelia, verso una mèta che profuma di quieta e disperata malinconia, mentre alle forme sonore dei Chameleons più lirici e tormentati rimanda il rassegnato romanticismo di “Better Late Than Never”. La chiusura del lato A (so che il CD ci ha privato di alcuni topoi come quello delle due facciate viniliche, ma visto che sto scrivendo la recensione mentre Chasing Promises sta girando sul mio vecchio piatto – anno 1980!! – mi concedo questo nostalgico richiamo) è affidata a “Heartburst” caratterizzata da ritmica più movimentata e distorsioni finali sempre assai controllate.
Una liquida linea di basso introduce “Moment By Moment”, assoluto apice del disco, pervaso da chitarre sempre pulite e cristalline anche quando, nell’incantevole ritornello, accelerano verso intrecci assai bunnymeniani: mai la tristezza si è manifestata in toni di così adamantina purezza. “Smash Palace” è l’episodio che maggiormente richiama i modelli post-punk (Joy Division, Sound, Chameleons) intersecando elementi dark, pop e psichedelici. Segue la soffice ballata “Sometimes On Sunday”, percorsa da gentili e commoventi giochi di chitarre semiacustiche e synth, in una struttura che sa di Pink Floyd e krautrock.
La dimensione sognante di “Glow”, richiamando alla mente le ipnosi dolci-amare dei Cocteau Twins e gli equilibrismi chitarristici dei primi Felt, conclude l’emozione di un disco che riesce a mantenere uno standard compositivo ed emozionale costantemente elevato per tutta la sua durata. Se proprio dobbiamo trovare un difetto nei Breathless questo lo potremmo individuare nella mancanza di un brano che sia veramente manifesto memorabile e immediato del loro universo musicale, una traccia simbolo che costituisca un imprescindibile punto di riferimento (come ad esempio “Penelope Tree” per i già citati Felt o “Another Girl, Another Placet” per gli Only Ones).
Questa potrebbe anche essere la chiave per comprendere lo scarso successo >in Inghilterra di una band che, piuttosto bistrattata dalla critica locale, ha ottenuto invece, paradossalmente, maggiore fortuna proprio qui in Italia, dove ha potuto godere, e gode tuttora, di una cospicua schiera di fedeli supporters>
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