R Recensione

8/10

Carla Bozulich-Evangelista

Hello Voyager

Carla Bozulich è viva e lotta insieme a noi. E ogni giorno ringrazia il cielo (o chi per lui) di essere ancora qui. Nella sua viscerale preghiera l’incubo allucinato e ricorrente del reduce si mescola al senso di predestinazione di chi ha ricevuto un dono prezioso da condividere con il mondo intero. La storia potrebbe essere quella di un personaggio di J.T. Leroy o di “Ultima fermata a Brooklyn” di Selby Jr.: lei, ex tossicodipendente e prostituta redenta dalle sinfonie di Mahler, divenuta critica, cantautrice e performer musicale (con gli Ethyl Meatplow, i Glue, i Geraldine Fibbers, prima dell’esordio solista). E da allora neanche un minuto può andare sprecato almeno finché il suo debito con la Musa Euterpe non sarà estinto.

Questo, tanto per intenderci, non è il solito blues post industriale che alle blue notes sostituisce i clangori arrugginiti del noise. Questa è la testimonianza apostolica di una generazione che non dava alcun futuro per scontato, l’agiografia di una santa blasfema dei nostri tempi. È musica cucita a foggia e misura di un’anima ustionata dai tormenti. Se Evangelista (2006) descriveva una lenta scalata delle pendici infernali muovendo dall’ultimo cerchio, Hello Voyager (che eredita il moniker dal predecessore a sancire una sorta di continuità metafisica) rappresenta il progressivo macerarsi del senso di colpa nei lattiginosi incunaboli del purgatorio.

Se il primo è nero monocromo che inghiotte tutti i colori di un viaggio allucinante, il secondo è bianco accecante che li rifrange in un eclettismo ardente e ricercato. L’esibizione virtuosistica di un ferreo controllo sulle proprie emozioni che le consente di abbandonarsi ad esse senza requie, ne remore di sorta. Abbattere a piacimento la parete buia che circonda il pozzo “lacaniano” dei simboli e delle reazioni psichiche.

Confermata la squadra di musicisti che aveva scolpito nella torba e nello zolfo il disco precedente (fra cui l’inseparabile Tara Barnes, il polistrumentista Shahzad Ismailly e alcuni membri dei Silver Mt. Zion), Hello Voyager, complice un certosino affiatamento e la sensazione che Carla dia il meglio se cinta e protetta da un ampio quanto fidato cerchio druidico di musicisti, suona decisamente più vario, riottoso, ibrido ed assimilabile. Se si esclude la title track (posta peraltro in chiusura) i pezzi hanno una durata media di tre/quattro minuti e privilegiano l’impatto abrasivo/emotivo sulla cesura ambientale, il calco fossile dei generi piuttosto che la forma libera.

Wind of St. Anne è l’atto unico recitato da una Galas posseduta dal fantasma di Jim Morrison (“The West is the Best, and the wind calls my name…”), fra gorgoglii, grinte e garriti che traballano al rollio di un accompagnamento rarefatto, spigoloso, discontinuo, innalzato su un bordone d’organo e raschiato da feedback e flanger, attraverso l’eco della sua stessa voce campionata in sottofondo, come storpiata dalle raffiche di vento di una tempesta di sabbia. Il tribalismo alla Babes in Toyland di Smooth Jazz, costruito su giri concentrici di tamburi, daghe di fuzz e affilati accordi di tastiera, rivela una propensione per il “mordi e fuggi” dell’hardcore, doppiata da Truth is Dark like Otherspace, un saltarello di androidi dove il buzz s’intrica coi feedback a creare un’edera di tenebra sonica che non lascia intravedere financo un raggio di luna.

Lucky, lucky luck, sembra un classico di Nina Simone rivisitato da Lydia Lunch, col pulsare di una singola nota di basso, i rintocchi sfasati del rullante, le blue notes che si parano all’orizzonte come nuvole nere cariche di fulmini e, dopo l’intermezzo gotico-industriale di For L’il’ Dudes, The Blue Room compone il suo insospettabile crescendo madrigalesco: l’organo chiesastico che si diffonde fra le navate descritte dai violini e dal violoncello, mentre Carla intona il suo gospel con l’aria di una Patti Smith genuflessa di fronte alle pale dell’altare maggiore; Paper Kitten Claw esaurisce questa trilogia con un lied ritmato da “ostinato” intermittenti e contrappunti d’archi (al violino, fra l’altro, è interamente affidata la melodia del chorus) che nel finale assume quasi i contorni di un girotondo o d’una conta infantile.

Restano i due brani più esaltanti e controversi, di quelli che, a torto o a ragione, leveranno il tripudio di pochi e le gambe dei restanti: The Frozen Dress, cupa, cavernosa trance dronico/ambientale, inintelligibile canto tibetano equalizzato nel codice binario d’un calcolatore elettronico, ed Hello Voyager, comizio furibondo, isterico, fluviale (più di dodici minuti), la punta d’una sigaretta che allarga un cerchio di fiamme attraverso il sudario della rappresentazione, un tentativo estremo di annullare la passività prospettica del rapporto con l’ascoltatore (la declamazione ci riporta quasi ai Birthday Party o al primo Cave), un ginepraio di rumori sferraglianti e free jazz industriale (fiati a casaccio, rullate marziali su non si sa bene quale tempo) culminante in un tremolo assolo di twang che occupa quasi tutta la parte conclusiva.

Dopotutto, e Carla sarà d’accordo, “la prudenza è una vecchie zitella, ricca e brutta, corteggiata dall’impotenza”; che le Muse ce la conservino sempre così invasata (ed ispirata) sul lungo e impervio cammino a riveder le stelle. 

V Voti

Voto degli utenti: 6,3/10 in media su 6 voti.
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REBBY 6/10
cielo 5/10

C Commenti

Ci sono 2 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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Lezabeth Scott (ha votato 8 questo disco) alle 18:02 del 26 aprile 2008 ha scritto:

Emily Dickinson, con la cresta punk, invasata dagli spettri di casa Shirley Jackson. More songs like that, please! Please, please, me!

Totalblamblam (ha votato 7,5 questo disco) alle 13:46 del 8 maggio 2018 ha scritto:

ottimo bel disco davvero.