Clues
Clues
Una delle derive sociali odierne sta nella mutazione del concetto di creatività. Limpeto di unintuizione artistica lascia sempre più volentieri il posto ad un monetizzabile algoritmo matematico. E i creativi puri e semplici, forse ingenui, infantili, scarseggiano sempre più. Se ne è accorta lazienda danese della LEGO, che causa progressiva desertificazione cerebrale dellinfanzia, è immersa in una drammatica situazione economica che si protrae dal 2003.
Cè però un luogo dove il gioco del monta e smonta usando sempre gli stessi elementi è ancora molto in voga e produce sorprendentemente risultati freschi e interessanti. E un luogo fatto di pioggia e neve, di animali e foreste, di lande desolate e città moderne dove la cultura è in fermento. Si chiama Canada e, se è vero che la musica è una rappresentazione del popolo che la produce, è qui che la LEGO dovrebbe concentrare il fuoco delle esportazioni. Se infatti ai canadesi piacerà fare coi mattoncini quello che fanno con le band musicali il boom commerciale sarà assicurato.
Il nuovo giocattolo che arriva da Montreal si chiama Clues, ed è in tutto e per tutto il prodotto a cui recentemente il made in Canada ci ha abituato: mix di musicisti, mix di generi ed influenze, ottimo risultato. Che poi lalbum esca per lautorevole Constellation, casa del post rock più orchestrale, non fa che aumentare linteresse per il gruppo confermando allo stesso tempo il cambio di rotta più o meno intenzionale delletichetta.
Clues è un esordio di non esordienti. Tipicamente canadese. Qui i nomi noti sono due: Alden Penner,metà dellindimenticato e prematuramente scomparso duo The Unicorns (ascoltatevi Who Will Cut Our Hair When Were Gone? del 2003) e Brendan Reed, membro di innumerevoli bands locali nonchè batterista degli Arcade Fire (dico niente!) ai tempi del primo EP. Soprattutto Penner era atteso al varco, dopo le buone uscite del suo ex-compagno unicorno Nicholas Thorburn con gli Islands prima e gli Human Highway poi.
Penner e Reed sono amici, figure mobili nel fertile humus di Montreal. Collaborano a tutto quello cui si può collaborare (sono canadesi), incidono persino un 7 con canzoni loro, un lato a testa, che poi neppure pubblicano perché tanto era solo così, per divertimento.
I Clues nascono ufficialmente nel 2007, con una serie di concerti a sorpresa in piccoli club di Montreal dove si presentano come trio. La formazione si allarga agli attuali cinque elementi (oltre a Reed e Penner troviamo Ben Borden, Lisa Gamble, già con Evangelista ed HRSTA e Nicholas Scribner, tutti e tre del giro Hotel2Tango) nel volgere di un anno e in seguito alla non eccezionalità dei primi spettacoli. Tutto cresce per addizioni spontanee, come può succedere solo nella più ideale scena indie, dove tutti sono buoni musicisti e disinteressati amici. Così capita anche che Don Wilkie (boss Constellation) vada a vedere un loro show, con pubblico di circa dieci persone, e decida di fargli fare un disco. Registrandolo allHotel2Tango, naturalmente. In analogico, rigorosamente.
Ne viene fuori un gioiellino brillante, unopera in bilico fra aggressività e delicatezza, dolore ed ironia, nostalgia e speranza. Un disco leggero ma pieno di contenuti, che suona spensierato facendo fulcro nel profondo.
Haarp chiarisce subito quelle che sono le potenzialità del gruppo. Inizia come potrebbe iniziare il prossimo dei Minus Story: una voce fragile e sghemba si abbarbica su qualche nota buttata qua e là in mezzo ad un mare di risonanze. Come lanciare sassi dal ponte di una nave: qualche cerchio preciso in un casuale infinito. Poi la nebbia svanisce, si affaccia il sereno con lingresso degli strumenti in un crescendo delizioso, con chitarre che più indie non si può, tutte spigoli e armonia. In cima alla salita si sbatte contro un riff massiccio che dura un momento e subito si destruttura, vira verso un cambio di ritmo che viene da Washington DC, si gonfia per supportare lassalto vocale di fine pezzo, rubato direttamente dal bagaglio dei Fugazi. Se non è amore per la struttura questo.
Remember Severed Head è figlia degli Arcade Fire, dei Pixies e della tradizione americana reinventata dagli Eels. Compaiono i cori, che risulteranno una caratteristica di tutto il lavoro, una voce femminile ed una certa attitudine pop, comunque molto raffinata. Stupenda lurgenza evocata dalle frasi di chitarra nel finale.
Approach The Throne è una cavalcata quasi metal, completamente spogliata di qualunque ineleganza, che si regge sulla percussività della chitarra contrapposta allincerta matematica della batteria. Ancora un coretto indovinato che alleggerisce il tutto, un ritornello facile facile ed un finale con trombe balcaniche a sovrapporsi e sostituirsi alla frase vocale, in puro stile Neutral Milk Hotel.
E il momento di una pausa: On The Dream è lenta, melodica, liquida. Priva di sezione ritmica, la voce galleggia instabile su un tappeto di chitarre uniforme. Latmosfera si protrae nella prima parte di You Have My Eyes Now: solo voce e una melodia in progressione che, non so perché, fa ancora venire in mente gli Eels. Il canto finisce sullattacco della seconda parte, una cascata di distorsione e due accordi che ospitano il ripetitivo coro liberatorio.
Perfect Fit è forse il pezzo con il maggior potenziale commerciale. Cabaret pianistico dassalto e voce Radiohead a tracciare una linea continua sopra i frenetici accenti, con unottima melodia che si esalta negli spazi aperti fra le strofe. Ancora una volta si rotola nel finale attraversando una battaglia di cambi, giretti beatlesiani, bordate chitarristiche e urla di anime dannate.
Il registro cambia ancora con Elope, ballad notturna in bilico fra la dolce prospettiva dei Beatles e quella malinconica ed intellettuale dei Belle And Sebastian.
Ancora i Fugazi a far da colonna sonora per gli acrobati di un circo in Cave Mouth, ritmo zoppicante e divertimento assicurato, ed i Black Heart Procession che provano felici lLSD in Crows, marcetta psichedelica con finale tra epico e scherzoso.
Ledmonton è fantastica. Di nuovo grande attenzione alla struttura, una voce sussurrata che parte da pochi accordi folk, larrivo della batteria che porta con se il clangore metallico di chitarre strapazzate, aperture e ripartenze dietro ogni angolo. Il tutto teso ad esaltare lavvento dellirresistibile coro, da cantare a squarciagola come bambini, che si sviluppa nel finale del pezzo, seguendo da vicino il modello di No Cars Go dei soliti Arcade Fire.
Il disco si chiude con la lenta Lets Get Strong, direttamente dagli anni 60, attraverso il filtro dei tempi. Quello che potrebbero fare oggi i Beatles se fossero un gruppetto che nessuno si fila, senza produzione e senza una lira.
La prima e più forte impressione è la leggerezza. E un disco che spolvera i bei ricordi della nostra fanciullezza, le gioie dei giochi allaperto e delle corse nei prati, passando attraverso la disillusione che abbiamo affrontato crescendo. E un disco divertente, che regala sorrisi e che si fa ascoltare così, senza particolare impegno e senza pretese.
Racchiude evidentemente i segreti di molte delle cose che si sono suonate negli anni 90 (post-punk di matrice Dischord soprattutto) e che offre però, più velatamente, uno scorcio sulla tradizione folk-pop anglo-americana radicata negli anni 60.
Di queste influenze i Clues elaborano e ripropongono le cose migliori, con maestria e spiazzante senso compositivo, con il giusto piglio scapestrato che mal cela uno stile invece elegante e davvero ricercato. Se si dirà che è un disco su misura per cavalcare le tendenze non si potrà negarlo. Del resto, quanti dischi così sono riusciti ad allietarmi sinceramente per qualche mese, prima che le fisiologiche pile si esaurissero regolarmente! E adesso ne ho uno in più che mi rende felice, fino a che dura, come fosse un giocattolo nuovo.
Tweet