COMSAT ANGELS
Waiting For A Miracle
“The three things I like in music are a strong rhythm, a nice tune & funny noises” (Stephen Fellows)
A cavallo fra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80, nell’ideale mappa della nuova musica britannica che si stava forgiando con l’esaurirsi della tempesta punk, acquistò un posto di assoluto rilievo la plumbea e un po’ tetra Sheffield, in virtù di una variegata e vitalissima scena locale, capace di offrire proposte assai eterogenee che spaziavano dagli sperimentalismi industrial-dadaisti di Cabaret Voltaire e Clock DVA al synth pop degli Human League, fino a giungere, via Heaven 17 e ABC a sonorità decisamente dance oriented. Quello che invece era più difficile sospettare che da questo calderone ribollente potesse uscire una delle gemme più pure e preziose che il post punk di matrice psycho-dark abbia mai generato. Eppure è decisamente un capolavoro l’album di esordio che il quartetto composto dagli ormai ex Radio Earth ed ora Comsat Angels, Stephen Fellows (chitarra e voce), Kevin Bacon (basso), Andy Peake (tastiere) e Mike Glaisher (batteria).
La band non ha operato casualmente nella scelta della nuova ragione sociale: Comsat Angels è infatti il titolo di un racconto dello scrittore SF J. Ballard (se qualcuno fosse incuriosito lo può recuperare nel n 717 della vecchia e gloriosa Urania), lo stesso autore che aveva ispirato ai Joy Division il titolo per uno dei loro brani più laceranti di Closet, The atrocity exhibition; ed è proprio alla scena post punk mancuniana e al circuito delle bands neo psichedeliche di Liverpool, Echo & The Bunnymen e Teardrop Explodes in testa, che il quartetto di Sheffield guarda principalmente allorché sta componendo i dieci brani che compongono la tracklist di Waiting For A Miracle. Sono questi suoni e questo approccio esistenziale a costituire la fisionomia espressiva dei Comsat Angels anche se non mancano le influenze assorbite dal background locale, anzi potremmo dire che tutto il disco è percorso dal continuo contrasto fra le ascendenze sheffiediane, riscontrabili nelle algide geometrie della sezione ritmica, nelle non rare intrusioni dub, nelle sferzate noise di chitarre e tastiere, da una parte e , dall’altra, il lirismo romantico decadente, il carezzevole incedere pop-psychedelico, la malinconia soffusa, che trovano soprattutto nella meravigliosa voce di Fellows il loro punto di forza. Si tratta comunque di un dualismo destinato a non rimanere incompiuto, ma che trova la sua folgorante sintesi proprio nelle dieci tracce di Waiting For A Miracle.
L’incipit non lascia adito a dubbi sulle coordinate musicali e letterarie che guidano il quartetto di Sheffield: “Missing in action” apre l’album, introdotta da lontani echi chitarristici, e da un drumming via via più incalzante non lontano dalle movenze estetiche dei Sound di Jeopardy, il basso traccia percorsi familiarmente Joy Division, mentre il cantato un po’ arrochito di Fellows, che qui ricorda a tratti i contemporanei esordienti Psychedelic Furs, ci introduce in un’atmosfera romantico-decadente, fatta di male di vivere, inadeguatezza emotiva e incombente sconfitta esistenziale (“Hello daily life,/I don’t want fight today/ I surrender/ I’ll put my toys away/ No aliens came/ I lost my little light”). “Babe”, nella sua apparente fragilità strutturale, condensa lo stile Comsat Angels, sospesa com’è fra secche e algide geometrie percussive e lo struggente e disperato cantato di Fellows, fra gelidi astrattismi ritmici e caldi flussi emozionali. “Independence Day” e “Waiting for a miracle” sono due meravigliosi esempi di equilibrio fra cadenze post-punk ed esplosioni psycho-pop in cui la tensione accumulata nella strofa trova la sua catarsi nei memorabili ritornelli capaci di sublimare lo sconforto e la frustrazione del “male di vivere”, l’inadeguatezza del proprio esserci (“I can't relax 'cause I haven't done a thing
and I can't do a thing 'cause I can't relax”; “I hear her saying
What kind of life is this? It's in suspension What kind of life is this?
Nothing happens”). Il fantasma dei Joy Division aleggia nell’ipnotico incedere di “Total War”, drammatica fotografia dell’incapacità di comunicare (“Nothing ever comes between us,
a no-man's land, a danger zone) e nella più muscolare ed elettrica “On the beach”, disperato manifesto di alienazione (“All I see is other faces,all I find is nowhere I'll like a place or some space that no-one gets up to”). Dopo tanta cupa ombrosità l’ironica movenza quasi ska di “Monkey Pilot”, l’epicità commovente, vicino a certe sonorità Cure dei primi due dischi, di “Real Story” e l’accattivante jingle jangle e le tastierine, tanto synth-pop, dell’episodio più leggero dell’album, “Map of the World” fanno tirare il fiato. Ma c’è ancora il tempo per concludere con uno degli episodi più intensi del disco: la struggente e nostalgica “Postcard” gioiello psichedelico che nulla ha da invidiare alle prove più convincenti di Bunnymen o Sound.
L’opera prima dei Comsat Angels è stata fin da subito percepita come una delle pietre miliari del post-punk britannico e non a caso è stata ristampata già due volte nel 1995 e nel 2006 con, rispettivamente, 3 e 8 brani in più, fra outtakes e demo, che comunque non aggiungono né tolgono nulla alla straordinaria bellezza e suggestione di questo disco.
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