Heraclite
Heraclite
E d’improvviso arriva il disco che ti sembra risollevare un’annata un po’ ingrigita. E il cielo sembra aprirsi facendo scorgere un possente raggio di sole accecante. Questo raggio di sole sono gli Heraclite, un collettivo che rispecchia al meglio il carattere buono della globalizzazione, essendo un “nationless group” formato da greci, francesi, fiamminghi e svizzeri (!), al servizio dell’etichetta Some Bizarre Records (nel catalogo roba di livello come Depeche Mode, Soft Cell, Einsturzende Neubauten). Non ci si faccia ingannare però dai nomi appena citati: gli Heraclite sono molto più che un progetto waveggiante “disturbato”.
Sono anzi qualcosa di completamente nuovo, che apre nuove prospettive al mondo dell’indie-dance, già sconvolto un decennio fa dalle intuizioni della DFA Records e più recentemente da una serie di baldi giovani etichettati per comodità come nu-rave. Gli Heraclite prendono un po’ dagli uni un po’ dagli altri, ma lo fanno con vigore e originalità, partendo da piattaforme nuove: l’afro-beat prima di tutto, che avvolge tutto il disco con la sua sensualità danzante e tribalità primitiva.
Ci sono almeno altri due elementi catturati dagli Heraclite che ne rendono un gruppo dal sound praticamente unico: l’esplosione orgiastica tendente alla demenzialità (e quindi al rifiuto di ogni seriosità) è il primo, elemento chiaramente debitore della tradizione Devo, più recentemente incarnata nell’istrionicità dei Liars e in misura forse maggiore dalla schizofrenia robotica dei Klaxons. Il secondo fattore è la ricerca di uno strutturalismo matematico-geometrico, debitore sia della tradizione industrial (la cui influenza si sente anche nella gravità generale dei suoni) che della ricerca imperiosa condotta dai These New Puritans: ne viene fuori una musica composta da incastri ritmici sovrapposti, un martellamento continuo in cui la base ritmica assume una dimensione centrale.
La grandezza di questo esordio discografico sta però tutta nel fatto che questa serie di ammalianti riferimenti non si trova organizzata in maniera omogenea e ordinata, bensì in un calderone frammentato e schizofrenico, che pur riuscendo a mantenere una lungimirante coerenza di fondo (fattore che rende il disco uno di quelli che salgono di valore con l’aumento degli ascolti) riesce a spiazzare ad ogni successione di brano.
È così che si passa dal post-punk di Elpetai, clownesco e tribaleggiante (punto di congiunzione tra Liars e These New Puritans) a quello di Thalassa, più debitore della tradizione world (spuntano fuori dal cilindro Mahjongg e Vampire Weekend), ma dotato di maggiore fascino per l’evocatività oscura data dai bassi corposi e da un cantato misticheggiante. In mezzo un folk greco lirico (Potamo) e un paio di devastanti esplosioni vitalistico-sensuali come Machestai e Ten toihessine, praticamente un’ammucchiata selvaggia tra i ritmi jazzati di Fela Kuti e la baldoria baccanale dei Klaxons.
Non fai a tempo a rifiatare che esce fuori il lato più cupo e darkeggiante del gruppo: Prhoneoussi, Nuctipolois e Akea sono swing deviati che richiamano malattia e claustrofobia, con visioni lisergiche degenerate sulla scia dei Liars di Drums not dead. Particolarmente stravagante e stordente è Nuctipolois, un frenetico free-jazz di fiati e batteria impiantato su un’andatura industrial-wave diretta da basso e canto. Aggiungiamoci la devastante matrice funk di Clinton-iana memoria in Polumathie e nella trascinante cavalcata liberatoria di Paidos e il gioco è fatto. Ecco a voi gli Heraclite, candidati a sorpresa dell’anno!
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