Liars
Sisterworld
La mia personalissima impressione è che ogni anno che passa i Liars si allontanino un po’ di più dalla realtà. Fin dalla monumentale esplosione di They were wrong, so we drowned il gruppo newyorkese non ha fatto altro che lasciarsi andare a sempre più massicce dosi di droga e di conseguente psych-music allucinogena, condizioni che hanno portato al tribalismo di Drums not dead o al recupero del punk-funk del disco omonimo. Sempre con risultati eccellenti, intendiamoci, altrimenti sarei ipocrita a sostenere nelle piazze (piene di gente compiaciuta che conosce i Liars ovviamente, specie in Italia) che il gruppo in questione sia stato quanto di meglio (ex-equo con gli Oneida, of course) ci abbia regalato il mondo del rock nel decennio ‘00s.
Sisterworld porta avanti questo cammino quasi mistico di distacco dalla realtà moderna. Non me la sento di affermare che lo porta alle estreme conseguenze, in quanto conoscendo il gruppo c’è da ritenere che finchè il cantante Angus Andrew avrà abbastanza sale in zucca da non fare la fine di un Syd Barrett qualsiasi potrà regalare salti nell’ignoto ancora più spettacolari. Non ho parlato a caso di Barrett, figura che riemerge nitida in alcune composizioni dove la psichedelia stralunata e un po’ barocca del genio inglese si fonde con sventagliate acide (Here comes all the people) e chitarroni noise (I still can see an outside world), arrivando anche a congiungersi a strascicate nenie dark in cui clangori metallici e scale semi-acustiche raggiungono un effetto alienante ai limiti dello spaventevole (Drop dead).
È un’andatura lenta e mortuaria quella che avvolge Sisterworld, non per niente il disco più dark (o meglio noir) dei Liars. Solo raramente si esce dall’impasse attraverso il recupero dell’antica energia giovanile, con i relativi assalti sonori post-punk fulminanti (Scissor). Molto più spesso si viene scorrazzati in un sentiero oscuro, tra visioni spettrali e incubi ipnotici (Drip), recuperando la centralità di una psichedelia tribale (la Proud evolution in cui trionfano drums e sintetizzatori astrali). Con risultati variabili che si avvicinano ora a certe cose dei Tuxedomoon più dark-wave (i giri nel vuoto di Too much, too much, tra basso ‘80s chitarre volteggianti e tessuto sonoro di synth dorati) ora a dei Bad Seeds particolarmente psichedelici (Goodnight everything), o ancora a storielle più tipiche degli Eels, in cui la dimensione narrativa folk fonde arrangiamenti accuratissimi con un'essenzialità strumentale e vocale (No barrier fun).
Il rischio più grosso per un disco del genere era quello di mantenere un tono eccessivamente monocorde e stantio, tanto è vero che solo dopo ripetuti ascolti emergono bene quelle raffinatezze e quei viaggioni da magia nera in cui Sisterworld è strutturato. Per evitare questo rischio il gruppo ha piazzato saggiamente alcune accelerazioni nei punti focali del disco: oltre alla già citata Scissor troviamo il martellante shitgaze (o weird punk, fate voi) di The overachievers, abbastanza lurido e vitale da garantire una buona presa.
Il pezzo più trascinante del disco è però senza dubbio Scarecrows on a killer slant, post-punk robusto, da terrorismo sonoro, come se il cyber-punk dei Ministry si fosse aggiornato alle tendenze indie del nuovo secolo. È l’energia dei migliori Liars. Un brano che da solo ricorda a tutti quanti chi è che vuole comandare e guidare le danze anche del nuovo decennio che si apre. Un pezzo che risolve ogni dubbio determinando ancora una volta un pollice alzato per un disco dei Liars. Anche se ci si chiede cosa avremmo scritto se invece di un disco slow-dark come questo ci fossimo trovati davanti ad undici brani dotati della stessa potenza di Scarecrows on a killer slant. Sarebbe stata forse la presa di coscienza dell’inutilità di comprare altri dischi.
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