Mode Moderne
Occult Delight
«Oh mercy for the ones like me who see the world in colours three: black, gold, too often grey»
Il derivativo che piace. Al secondo disco, i canadesi Mode Moderne proseguono una rilettura filologica del post punk anni 80 e delle sue derivazioni post-Smiths, con un livello di originalità pari allo zero ma con un gusto melodico non comune che in questi ambiti conta, e non poco. In effetti la declinazione che il quintetto dà al proprio revival è piuttosto vicina a sfumature jangle pop, nonostante qualche giochino qua e là con lelettronica (Thieving Babys Breath, molto primi Editors) e una passione per gli ammicchi dark (vd. la copertina) che potrebbero far pensare a una vicinanza ai recessi new wave più maledettisti e gotici. La realtà è che questo è un disco decadente fino al midollo, e cerca di incarnare qualsiasi attitudine che in quel paradigma può inserirsi.
Le cose migliori sono quelle che al chitarrismo tenebroso uniscono tastiere eteree in aria di cimitero: come facevano, negli anni doro del revival post punk (10 anni fa, dunque: già, argh), i rimpianti Stellastarr (Grudges Crossed, Unburden Yourself), giocando come loro sul sostegno di una voce femminile a quella impostata e dandy di Philip Intile. Dove poi si aggiunge un violino (suonato dalla madre della tastierista) e si trova una melodia esanguemente romantica sopra arpeggi immersi nella nebbia, i Mode Moderne raggiungono il proprio zenit; succede, non a caso, nella title-track, piccola perla di decadentismo senza tempo, poco sopra laltro bijoux, più geometrico e tagliente, del disco (Severed Heads).
Altrove Morrissey incombe pure troppo (Times Up, Baby Bunny), e se il suo santino è messo da parte è per dedicarsi al dance-to-Joy-Division anni zero (She, Untamed) o al più sghembo accento psichedelico noir in stile Crystal Stilts (Come Sunrise), prima della conclusione in una ballata di gloria dark ("Running Scared").
Non cè una cosa che esca dal già-sentito, ma non cè una cosa che non si faccia riascoltare volentieri.
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