R Recensione

8/10

Pink Military

Do Animals Believe in God

All’inizio c’era l’Eric’s. Situato nella stessa via del The Cavern di beatlesiana memoria, questo locale divenne, nei tardi anni ’70, il catalizzatore dei nuovi fermenti musicali di Liverpool. Ai concerti delle sorprendenti e rivoluzionarie bands provenienti dalla capitale, Sex Pistols, Clash, Siouxsie And The Banshees, assistevano ragazzotti di buone speranze che rispondevano ai nomi di Ian McCulloch, Julian Cope e Peter Wylie i quali, ben presto, non si accontentarono più di ascoltare quei suoni, ma decisero di riprodurli a modo loro. In breve tempo la scena musicale di Liverpool divenne una delle più feconde ed influenti nel panorama post punk/new wave britannico e l’Eric’s fu il tempio dove celebrarne i rituali sonori.

È in questo contesto che sorsero i Big in Japan, vero supergruppo formato da nomi destinati, in modo diverso, ad incidere sulla musica fra ’70s e ‘80s: Budgie, Ian Broudie, Bill Drummond. Era la cantante Jayne Casey tuttavia, che dietro l’aspetto minuto dal look improbabile, capelli rasati, pesante maquillage nero con tanto di fiocchi appesi qua e là e, spesso, un portalampada (!) a mo’ di copricapo, e a dispetto di una voce ancora un po’ acerba, ma che già faceva intravedere le potenzialità espressive, colei che rappresentava l’anima, l’essenza del gruppo; e quando i BIJ, dopo la classica manciata di canzoni e concerti, si sciolsero, nel 1978,  la piccola Jayne non si perse d’animo e, reclutato in primis il polistrumentista ed eclettico factotum Nicky Hillon e poi altri ondivaghi compagni di strada, varò il progetto Pink Military Stand Alone, divenuto assai presto semplicemente Pink Military.

Si trattava di un’”armata rosa” (o punk?) assai agguerrita, il cui livello compositivo cresceva molto rapidamente, decisa pertanto a dare un valido contributo ad una scena cittadina e, più in generale, britannica in grande effervescenza creativa.

Dopo una manciata di singoli esce nel 1980 l’unico disco della band, quel “Do Animals Believe in God?” destinato ad avere un certo riscontro alle soglie del nuovo decennio musicale. Nonostante la critica avesse da subito cercato di costringere i PM all’interno del filone post-punk e ancora di più nel novero dei gruppi con voce femminile sorti sull’onda del successo di Siouxie And The Banshees, le cose non stavano esattamente in questi termini. Non vi è dubbio che una certa influenza dei Banshees fosse presente in alcune delle composizioni dell’album e in alcune delle linee vocali di Jayne (d’altra parte l’ex Big in Japan Budgie era nel frattempo diventato il batterista del gruppo di Miss Dallion), ma è altrettanto evidente che Do  Animals Believe in God? è opera dalle influenze assai più eterogenee, che non possono essere ridotte alla sola matrice post punk/new wave.

Elementi del cabaret di Kurt Weil ed Edith Piaf, il decadentismo e l’uso dello “spoken words” loureediano, il dub e i ritmi ballabili, il pop un po’ sguaiato e adolescenziale della contemporanea Lene Lovich: tutto questo va a comporre l’universo sonoro dei PM e, in tutto questo, dobbiamo costantemente tenere presenti i mai banali arrangiamenti di Hillon e le sapienti, calibrate e spesso inedite intrusioni del synth che rendono tutti i brani del disco, anche quelli apparentemente più “facili”, sempre leggermente stranianti.

Anche i testi di Jayne non sono mai banali anche se ci portano su terreni più marcatamente post punk, con le loro storie di dolore, alienazione, solitudine, di incapacità di stabilire relazioni equilibrate fra i due sessi, frutto delle difficoltà tanto sociali che esistenziali che affliggono i protagonisti degli 11 brani in scaletta.

L’album presenta due volti assai diversi: il lato A (com’era più semplice per il recensore quando aveva a che fare con il vecchio vinile!) inanella uno dietro l’altro le canzoni più rappresentative e conosciute (molte già apparse su singolo), quelle più facilmente memorizzabili e dal più immediato impatto emozionale; il lato B presenta invece il volto più anticonvenzionale e sperimentale dei PM, caratterizzato da brani spesso dal sapore “etnico” e da atmosfere decisamente svincolate dagli stereotipi post-punk. Il brano “Degenerated Man” di apertura è già un capolavoro che incastra, sull’ossessiva struttura darkeggiante di basso, batteria e synth, la squillante voce di Jayne intenta a squarciare il velo dei traumi più profondi (“Degenerated man, degenerated man, don’t look now I might be crying, don’t look now I might be dying). Non sono da meno “I cry”, ballata esistenziale dal languore decadente e mitteleuropeo giocata tutta sul dialogo fra liquidi interventi elettronici e la voce di una camaleontica Casey, improvvisamente divenuta vera femme fatale, e “Did You See Her” dall’incedere triste e malinconico (“All alone at night she waits, for someone to call but he’s always late”) ma alleggerita dai deliziosi tocchi popeggianti del synth. I ritmi si fanno più mossi e ballabili con “Wild West”, dove l’inflenza del dub è evidente e la Casey gioca a fare la bambina maliziosa, avvicinando enormemente la sua performance vocale a quella della dell’irriverente Lene Lovich, mentre un basso rotolante introduce l’accattivante incedere new wave di “Back On The London Stage” uno degli episodi più tradizionali e vicini alla lezione di Siouxie Sioux.

La prima parte dell’album è chiusa da “After Hiroshima” apparentemente leggera e quasi ballabile, vicina alle atmosfere dei primi Comsat Angels, ma anch’essa insaporita da una tensione impalpabile che si fa più esplicita nel testo (“After Hiroshima came the storm”).Living in A Jungle” e “Dreamtime” aprono la parte “sperimentale” del disco, offrendoci due ottime (soprattutto la seconda) variazioni di elettro-etnica, impreziosita da incursioni originali di synth, spumeggianti basi ritmiche, echi e vibrazioni capaci di suscitare momenti di emozionante trance ipnotica.

La “lovichiana” (si potrà dire?) “War Games” ci riporta alle sonorità di Wild West, mentre “Heaven/Hell” è un grintoso, chitarristico brano che richiama, nelle dissonanze del sax e del piano, il post punk di Killing Joke e PIL e addirittura la no-wave dei Cabaret Voltaire. La chiusura è affidata alla title track, ipnotico mantra per synth, batteria e voce (unico brano non cantato dalla Casey), che si accomiata con il più profondo e subdolo dei dubbi metafisico-esistenziali: “Do you, do I believe in God?”. È anche il commiato definitivo dei PM che di lì a poco si scioglieranno. La Casey, tutt’altro che intenzionata ad uscire dalle scene musicali, si ripresenterà in breve tempo con il nuovo progetto dei Pink Industry, ma questa, come si suol dire, è un’altra storia.

V Voti

Voto degli utenti: 8,7/10 in media su 3 voti.
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target 8/10
IcnarF 8/10

C Commenti

Ci sono 2 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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target (ha votato 8 questo disco) alle 17:06 del 29 luglio 2009 ha scritto:

Rinnovo il ringraziamento al Benoit de noantri per la continua esplorazione dei lidi post-punk tra settanta e ottanta più gustosi. Davvero lampante, in questo disco, il salto tra la prima parte (quasi new romantic "I cry" e "Did you see her", no? l'80 è anche l'anno di "Vienna" degli Ultravox...) e la seconda, ultrasperimentale. Preziosissimo/i!

IcnarF (ha votato 8 questo disco) alle 14:34 del 21 agosto 2009 ha scritto:

Vienna degli Ultravox fa piangere, dai. Disco che ho ascoltato per curiosità e mi era anche piaciuto.