Public Image Ltd
Metal Box/ Second Edition
"This person has enough of useless memories", e quindi è tempo di limitare la responsabilità, pesante come un macigno, della sua Immagine Pubblica.
Non mi metto a ripercorrere le tappe, sin troppo note, che hanno segnato il cammino: il fracasso di Frisco, i Pistols in mille pezzi, le polemiche feroci con McLaren, che vede dissolversi nel nulla la sua gallina dalle uova d'oro; il pasticcio Sid Vicious. La maschera si frantuma, Rotten muore, Lydon invece rinasce: non è più un fumetto, ritorna una persona; le invettive a due accordi diventano un particolare irritante che ha segnato solo la vita precedente.
La fase 2.0 si apre all'insegna di motivi decisamente nuovi: la musica afroamericana è bella, i primi anni '70 non sono un deserto cuturale, si può anche pensare, comporre, mixare. Non solo gridare. Saper usare gli strumenti non è un difetto.
Lasciamo perdere il debutto, e concentriamoci su "Metal Box/ Second Edition", perché abbiamo a che fare con il disco post punk per eccellenza, con uno dei massimi parti della musica rock inglese, inimitabile a partire dalla celebre confezione artistoide e metallica.
John e la Virgin costruiscono un ensemble di musicisti con pochi rivali, in termini di coraggio, inventiva, capacità tecniche, provocazioni sonore. Come il Pop Group, Lydon, Levene, Wobble, il fenomenale Dudanski e quindi (occasionalmente, solo nelle ultime sessioni) Atkins sono morbosamente attratti - oltre che dalla droga - dalla musica nera.
Il funk martellante importato via Bristol, ma soprattutto le acrobazie produttive di reggae e dub, il basso che pompa senza tregua, le sue figure ritmiche dilatate e appiccicose. I piatti scottanti della disco music, i suoi ritmi frenetici. Manca la componente free jazz, e quindi il suono è meno fiammante, meno impulsivo, più controllato.
Più agghiacciante, però. Poche proposte sono in grado di infiltrarti nel cervello la profonda inquietudine che si mimetizza nei solchi di Metal Box. Raramente la musica ha saputo essere altrettanto opprimente: le affinità con il coevo movimento gotico e decadente sono palesi, nel mood, ma qui non c'è nulla di affettato, non c'è bisogno di truccarsi il volto. Tutto è tremendamente asciutto e pietrificato, la performance è pervasa da un'angoscia profonda, amarissima. Ma è anche satura di sarcasmo, compiaciuta del nulla che guarda dritto negli occhi.
Lydon non crea nessun regno dei fantasmi, ma ci si trova dentro, e si arrende perché loro sono in maggioranza (anzi, forse Lydon è uno di loro). Fantasmi tremendamente reali, tremendamente vicini al cuore pulsante delle nostre esistenze.
Ecco quindi "Albatross", il capolavoro del Lydon-Baudelaire, uno spaccato di maledettismo aggiornato al tempo della crisi. Il basso è tanto corposo da riscrivere le regole grammaticali del dub, elabora una sorta di funk bianco congelato. La chitarra dimentica la linearità, cancella con un colpo di spugna il concetto di armonia, lancia nello spazio stilettate graffianti, infila nei fianchi pugnalate in serie. Levene e il suo strumento solo uno dei simboli del post punk tutto, perché frantumano le certezze del rock, lo sviluppo lineare di un tema, il virtuosismo (anche se, in fin dei conti, Levene è un virtuoso). John nel frattempo sbiascica il suo ingombrante senso di paranoia, si arrende alla sfiducia. Dieci minuti di imprecazioni infernali, ecco cos'è "Albatross".
"Chant" sfrutta tutto il potere degli armonici, che la chitarra ributta come schegge. Lydon gracchia e ti mette a disago ("Voice moaning in a speaker"), la sessione ritmica architetta complesse figure geometiche di marca dub-disco, il mixaggio è stellare.
"Death Disco" è il resoconto della malattia che si è portata via la persona più cara, slabbrato e ferito, mortifica il concetto di disco music come danza. Perché qui il ballo è solo oppressione, è silenzio rabbioso: la discoteca della morte. Come noto, il singolo finirà in classifica, conquistandosi una buona posizione, ed è fra le cose più rivoluzionarie che abbiano mai investito il palinsesto tv. "Radio 4" sposta il baricentro verso un synth-pop neoclassico costato ore di lavoro in fase di produzione. Il sound è imperniato su un concetto molto eniano di ciò che la musica dovrebbe essere, con le tastiere che si aprono in volute ampie e solenni; il basso funk-disco però lancia note accattivanti e sospese, l'impasto rimane molto sui generis.
"Poptones" è dark all'ennesima potenza, e pure il mio pezzo preferito, il frammentario e macabro resoconto di vicende spaventose (uno stupro? un omicidio?). La chitarra effettata sfrutta ancora al meglio il potere evocativo degli armonici (come nella stupenda "Graveyard", il capolavoro di Levene), la circolarità ritmica e melodica del brano accentua il senso di terrore. Lydon si conferma turpe psicologo e pazzo conclamato, mette a nudo le sue patologie. "The Suit" è monotona nella parte vocale, ma dimostra le grandi abilità della band in fase di produzione, perché amplifica lo spazio e l'eco del suono, evidenzia e materializza l'impatto di ogni strumento (i piatti della batteria, ancora il portentoso giro del basso), omaggia chiaramente l'estetica dub e disco music, calandola però in un contesto decisamente meno sereno.
"Careering", secondo la critica seria, parla della situazione irlandese, ma anche di facce che piovono oltre il confine, e musicalmente è estenuante, snervante, scarnificata. Pulsa senza tregua, lascia strascichi pesanti, con il sintetizzatore che sperimenta strane onde di suono, con la sessione ritmica ancora una volta incalzante. "No Birds Do Sing" vede un Dudanski in stato di grazia assoluto (la sua performance è superbamente articolata, eppure minimale), la cantilena stonata di Lydon questa volta è tremendamente efficace e imbronciata, Levene è il solito guastatore sonico. Si tratta di un pezzo meraviglioso, non si fosse capito, della celebrazione definitiva dell'Immagine Pubblica.
Raramente capita di imbattersi in musica tanto opprimente e insostenibile, dicevo. Eppure, per dire, "Albatross" possiede un potere sinistro: vorresti che finisse, e al contempo desideri che non la smetta mai, che il suo battito ti calpesti all'infinito.
Tweet