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R Recensione

6/10

Tante Anna

TA

Volta la carta ed esce il jolly (insperato). Alessandro Baronciani, una vita per la matita – anche quando il lapis prende la forma di una chitarra –, sceglie finalmente di dedicarsi ad altro: minimizzando il minimalismo, riducendo il riducibile, abbracciando il pauperismo totale dei mezzi espressivi. Compagno di strada (della “nuova” strada) è il bassista e amico di sempre Thomas Koppen (June and the Well): il sodale perfetto per imporre la peculiare estetica di Tante Anna all’interno di quella scena di Pesaro della quale, tra evidenti punti di contatto (Be Forest, Soviet Soviet) ed altrettanto evidenti discrasie (Maria Antonietta), si parla ormai da parecchio tempo.

Di estetica, per l’appunto, si accennava appena sopra. Descrivere gli esiti del proprio esordio come “scuri come una madonnina di pietra nera” potrà senz’altro sembrare pretenzioso, ma sarebbe altrettanto ingeneroso affermare che non sia accurato. Se gli Altro erano l’haiku, i Tante Anna scelgono la strada del decadentismo gothic-oriented: e nelle liriche (esemplari, sopra le altre, quelle di “Pallina”) e nei suoni, materici, le cui tinte biancastre sbiadiscono spesso e volentieri nel grigio plumbeo (che dire del risicato omaggio ai Sisters Of Mercy di “V. Battaglia Finale”, la significativa strumentale d’apertura?). Cura formale assoluta, dunque, a dispetto del minutaggio – tenuto ai limiti dell’extended play, come da abitudine – e, più sporadicamente, della tenuta degli stessi brani, su cui si allungano le ombre dei consueti Joy Division (il riff indie-wave di “Nene”, incalzato dall’algida drum machine, sembra una variazione sul tema di “Transmission”), della new-new wave d’Oltremanica opportunamente diaframmizzata (“Iasu” che, bontà loro, altro non è che la contrazione del greco geià sou) e di una synth-gaze lasciata macerare in lontananza (catatonica è l’andatura di “4”, mentre “Non Ti Credo” sembra figlia delle rovine iconiche del Żuławski di Possession o del Kieślowski del Decalogo).

Ci si può chiedere, naturalmente, quanto tutto questo sia attuale o necessario – anche se l’eclatante e inatteso exploit di “Contravveleno” degli Havah, in parte, risponde al quesito. Venticinque minuti non sono sufficienti a fugare ogni dubbio, ma segnano un buon punto di partenza per evoluzioni future. Da segnare sul taccuino le sghembe storture chitarristiche che deformano la prospettiva della ritmica pulsante di “Parata”.

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