The National
High Violet
Non mollate ragazzi: siete quasi in paradiso. Così tre anni fa riassumevamo la loro parabola musicale. Dai sotterranei di Brooklyn alla conquista del Fake Empire sulle note della campagna elettorale di Barack Obama. Fino ad allora i Cincinnati Kid(s) avevano saputo giocare alla perfezione le loro carte. Una parabola, quella dei National, tipica del gruppo indie in procinto di fare il grande salto. Il problema non è la caduta ma l'atterraggio, come dicevano in un celebre film francese degli anni 90. Dopo il successo Boxer (2007) prospettive e aspettative si sono virtualmente allargate di pari passo. Qui a Storia poi il gruppo dei fratelli Dessner e Devendorf e del front-man Matt Berninger gioca praticamente in casa. Nel senso che a dare una lustratina a quel meritato successo, nel nostro piccolo, forse abbiamo contributo anche noi: dal momento in cui l'album fu subissato di elogi, di commenti, di confronti, di discussioni e rimase a lungo in testa alla classifica dei nostri appassionati prima di essere incoronato disco dell'anno da una redazione come al solito in preda ai fumi dell'alcool ma una volta tanto lungimirante. Ma quello del fattore campo è un vantaggio apparente che può trasformarsi, qualora il risultato lo giustifichi, in una delusione ancora più cocente. E in una repente stroncatura.
Consci anche loro, evidentemente, della crucialità del momento i National si giocano una di quelle chance che capitano una volta solo nella vita. E lo fanno bene, bene da National, con dedizione e una certa prudenza. Financo eccessiva sotto molti punti di vista. Concentrandosi sulla fertilità del loro song-book piuttosto che azzardare l'evoluzione di un suono, misto di post-punk, cantautorato folk e minimalismo da camera, che sembrava aver toccato sul disco precedente il suo apice espressivo. High Violet non è un “Boxer parte 2” ma un disco che amplifica e, per molti versi, semplifica le intuizioni del suo predecessore. L'atmosfera si fa meno cupa, tesa, nevrotica più rarefatta, malinconica, contemplativa. Concetto che tradotto in suoni significa meno indie angolare, meno variazioni ritmiche, chitarre in sordina e più spazio agli arrangiamenti da camera (piano, archi, tastiere, fiati in taluni casi), qui più ambiziosi e insistiti che in passato, che Padma Newsome e Bryce Dessner hanno già avuto modo di curare nel vivaio dei Clogs.
Certo le somiglianze fra i due album permangono: Terrible Love, con la sua scabra distorsione e la ritmica affilata e rampante dei Devendorf che hanno la meglio sul tenero arpeggio e l'armonia di piano, non avrebbe sfigurato accanto ai pezzi che hanno reso Boxer uno dei lavori più interessanti del decennio scorso e Bloodbuzz Ohio riporta alla mente l'ormai classica Apartment Story, almeno all'inizio, poi prosegue su un binario più epico e solenne. Dove il nuovo lavoro si distacca dal precedente è nel peso di cui vengono investiti gli accompagnamenti minimali ma avvolgenti degli archi in Anyone's Ghost, pezzo che starebbe bene in un remake perverso e hitchcockiano del famoso film con la bella Demi Moore e il povero Patrick Swayze, dei fiati e dei cori (elemento poco sfruttato dal gruppo in precedenze) in Afraid Of Everyone. Una vena enfatica ed accorata che il gruppo può incanalare ancor più liberamente nei brani lenti e semi-acustici come lo splendido folk bandistico di Runaway, la pomposa England, la crepuscolare Lemon World, la corale Vanderlyle Crybaby Geeks.
In conclusione High Violet è un disco di ottime canzoni che riconferma le qualità già emerse, specie nei due lavori che l'hanno preceduto, e fotografa una band al valico fra le sue origini schive e autoriali e una nuova dimensione più immediata, popular, accattivante. Quello che vi voleva, probabilmente, per farli conoscere ad un pubblico ancora più vasto, senza svendere o snaturare le loro caratteristiche. Missione compiuta. E poco male se dovranno consegnare lo scettro di disco dell'anno nelle mani di qualcun altro.
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