The Psychedelic Furs
Talk Talk Talk
Devo essere sincero, non sono mai riuscito a capire il totale silenzio di Mr S. Reynolds, peraltro spesso oggettivamente illuminante su molteplici aspetti della nuova musica britannica a cavallo fra ’70 -‘80, riguardo gli Psychedelic Furs. Eppure che questi non abbiano avuto un ruolo secondario nella definizione dell’immaginario post-punk/new wave è fuor di dubbio e titoli come Sister Europe, Pretty in Pink, Love My Way, Heaven sono in grado di riaccendere miriadi di ricordi in tutti coloro che quella stagione l’hanno vissuta e amata. Non credo che l’amnesia dell’autore di “Post Punk” possa essere spiegabile con l’eventuale insofferrenza per la seconda fase musicale intrapresa dagli PF, indubbiamente via via sempre più “commerciali” e con un occhio e mezzo rivolto al mercato americano, perché i primi due dischi rimangono opere prive di compromessi che hanno saputo coniugare consenso di pubblico a ricerca estetica coerente e rigorosamente incondizionata; e neppure posso credere che la dimenticanza risieda nel fatto di etichettarli come semplici epigoni di altre band (in questi termini ad esempio Reynolds liquida in una riga – a mio parere con scarsa lungimiranza - i Sound) perché la musica degli PF, frutto di varie e stratificate influenze, sapientemente rielaborate, non può essere certamente definita “mimèsi” di altro. E dunque resta il mistero!
E allora colmiamo il vuoto e diamo agli PF ciò che gli è dovuto, Narriamo di come, formatisi a Londra nel ’77, sull’onda del punk, attorno all’asse formato dai due fratelli Butler, Richard (vocals) e Tim (basso), costituirono ben presto un ensamble dal respiro che andava oltre il classico quartetto, avvalendosi dell’apporto dei due chitarristi John Ashton e Roger Morris, del batterista Vince Ely e del sassofonista Duncan Kilburn. Ne scaturisce un sound che sintetizza molteplici esperienze: neo psichedelia e post punk (Echo & The Bunnymen, Cure, Siouxsie & The Banshees, Bauhaus), art rock di ispirazione Velvet Underground (basti dare un’occhiata alla foto che li ritrae sul palco, sul retro del primo disco. per intuire le profonde affinità elettive fra le due band), glam e atmosfere elettroniche (Roxy Music, David Bowie). Il risultato iniziale è l’omonimo Psychedelic Furs del 1980, concentrato di romanticismo decadente e vellutate abrasioni, scandito dall’inconfondibile timbro vocale baritonale, grezzo e rauco, ma scosso da improvvisi squarci di lirismo struggente, di Richard Butler, capace di partorire gemme luminose come la sinuosa Sister Europe, l’epica India o la “gotica” Imitation of Christ.
L’anno successivo gli PF licenziano la loro seconda prova sulla lunga distanza, Talk Talk Talk, ed è senza mezzi termini un vero capolavoro, opera di piena maturità stilistica, tanto monolitica nella sua coerenza estetica quanto variegata alla luce di una puntuale analisi delle singole tracce che la compongono. Il brano di apertura, Dumb Waiters (già singolo apripista dell’album), è manifesto programmatico dell’intera opera: sulla base di un tessuto ritmico ipnotico e ossessivo, di un vortice chitarristico distorto e lisergico, di inserzioni, ora lancinanti ora romantiche, del sassofono, emerge un vero e proprio wall of sound circolare di caos sporco e impastato, firma incontrovertibile, oltre che delle ragioni estetiche del gruppo, anche della produzione di Steve Lillywhite (già presente nell’album di esordio), il tutto enfatizzato dall’inconfondibile performance vocale di Richard Butler. Appena il tempo di tirare il fiato e giù subito il secondo singolo, quella Pretty in Pink, brano connotativo dell’intera vicenda musicale dei Furs, discendente in linea diretta da Sweet Jane di Lou Reed e che qui conserva tutta la sua carica spiazzante e ambigua, andata poi in buona parte perduta nella versione del 1986, edulcorata ai fini commerciali dell’omonimo film (“Caroline laughs and it’s raining all day, She loves to be one of the girls, She lives in the place in the side of our lives”). Non c’è attimo di respiro e una dietro l’altra si inseguono e si frantumano come schegge deraglianti e taglienti l’aggressione sonora di I wanna sleep with you, tre minuti capaci di stendere al tappeto sette secoli di donna-angelo e mandare in visibilio il buon Arthur Schopenhauer (“I won’t hold your hand, I won’t give you flowers, I just wanna sleep with you”), il dark punk di Mr. Jones, la sferzante tribalità di Into you like a train, ideale prosecuzione di I wanna sleep with you (“I don’t wanna tape you down, and shack you up with me, or put you where the flowers go, or get into your mind, I’m into you like a train…”), l’asciutto delirio psicotico di It goes again e lo sferragliante e ritmico incedere dell’apocalittica marcia di So run down, interrotte solo per un attimo dalla più melodica e dolente No tears, criptica ballata, esaltata dalla malinconica dolcezza del sax e delle vocals (“There’s conversations and conversations, talk about yourself again, talk about the rain again, no tears, no colours no you now!”). Solo i due brani finali rallentano i ritmi, chiudendo l’album all’insegna di una più accentuata estetica romantico-decadente che riprende alcuni degli episodi più significativi del precedente disco: All of this and nothing, aperta da un arpeggio di chitarra acustica (bisognava aspettare il brano 9 per sentirla!) è ballata cupa e malata, crepuscolare nei modi e nei toni (“You didn’t leave me anything, that I can understand, now I’m left with all of this, a roomful of your trash”), desolante ritratto di una sconfitta esistenziale, mentre She is mine è episodio finale contraddistinto della trasognata raffinatezza di un sublime pop malinconico e un tantino surreale, privo finalmente di chitarre torturate e distorte, preludio alla svolta destinata a contrassegnare il terzo album della band.
Immensi.
Vi prego, dite a Mr. Reynolds di riconoscere il suo errore, non è troppo tardi!!!
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