Whipping Boy
Heartworm
“Fecero la musica giusta nel momento sbagliato”. Questo sarebbe necessariamente l’epitaffio che dovrebbe accompagnare il monumento agli Whipping Boy in un ipotetico “Museo delle Grandi Occasioni Perdute della Musica Rock”. Difficilmente l’essere troppo in anticipo sui tempi è costato così tanto, in termini di successo, come è avvenuto per il quartetto di dubliners, costituito agli albori degli anni ’90 da Ferghal McKee (vocals), Paul Page (chitarra), Myles McDonnell (basso) e Colm Hassett (batteria). Ascoltarli significa riconoscere che, già assai prima del revival post-punk, della cosiddetta new wave of new wave, e dell’affermarsi di gruppi come Interpol, Editors, Bloc Party, era già in atto il recupero di sonorità e di approcci etico-estetici che si rifacevano direttamente alla fenomenologia dei primi eighties.
Acerbo, ma non sgradevole, condizionato da un amore sviscerato per i Velvet Underground (di cui i WB, furono inizialmente una cover-band), è il primo album Submarine (1992), opera nella quale comunque solo a tratti si vedono le potenzialità in grado di esprimersi compiutamente solo qualche anno più tardi. Nel periodo che separa l’opera di esordio dal capolavoro “Heartworm” (1995) gli Whipping Boy procedono nell’assemblaggio del loro originale universo sonoro che, ovviamente partendo (e non poteva essere altrimenti) dai loro eroi Reed e Cale, amalgama influenze post punk (Joy Division, Bunnymen e Sound su tutti), lezioni noise via Jesus And Mary Chain e Sonic Youth, interferenze glam (Bowie) ed intensa espressività vocale fra Ian Curtis e Leonard Cohen.
L’iconografia di Heartworm è già essa stessa precisa ed esplicita dichiarazione sulla poetica e sul background culturale di riferimento del gruppo: in una copertina, dominata dai toni azzurri, campeggia un cuore ghiacciato e percorso da ampie linee di frattura, sul quale si riflette il volto sfocato di Ferghal McKee; è dunque l’amore, nelle sue non poche sofferenze ma anche nella sua capacità rigenerativa, il tema dominante dell’opera a partire dall’appassionata dichiarazione di Twinkle (She’s the air I breathe), passando per l’amarezza ironica di The Honeymoon Is Over (You had to lear to tell your lies), fino alla trepidante incredulità di Morning Rise (I can’t help thinking that I love you). Il booklet interno poi, con i suoi occhiali da sole scuri, con il black and white espressionista dei ritratti del quartetto ci rimanda ad un albero genealogico che dalla Factory di Andy Warhol arriva alla dark wave di Joy Division e Bauhaus,
Sul piano musicale poi non c’è un momento di rilassamento lirico, di caduta emotiva, di “ennui” auditiva. Heartworm è un susseguirsi ininterrotto di capolavori a cominciare dall’incredibile “Twinkle”, appena introdotta da uno struggente violino very irish che subito lascia il posto ad uno sconvolgente intreccio di sezione ritmica, chitarra e voce che, fra rallentamenti e accelerazioni, è parente stretta di Twenty Four Hours dei Joy Division. Epica e drammatica al contempo è “When We Were Young” col suo incedere marziale e insieme dolente, fatto di abbandoni, liquori e vecchi telefilm; il lato romantico del gruppo emerge commuovendo fino alle lacrime nella prima parte di “Tripped” (per poi trasfigurarsi nella catarsi delle chitarre noise finali) e nella semi-acustica “The Honeymoon Is Over”; “We Don’t Need Nobody Else” inizia con un parlato loureediano che un po’ alla volta si innalza in una sinfonia di distorsioni, sibili e voci filtrate che rimandano ai migliori Jesus And Mary Chain.
Fantasmi Joy Division e New Order emergono nella trascinante melodia del basso di “Blinded” uno dei vertici assoluti di Heartworm; “Personality” ha incidere pop e intensa sensibilità lirica, esaltata dal ricco arrangiamento di archi; le chitarre psichedeliche e la voce filtrata di McKee in “Users” e “Fiction” richiamano influenze della scena di Liverpool (Bunnymen e Teardrop Explodes) mentre le linee di basso sembrano provenire da preziosi e inediti outtakes della band di Ian Curtis. Ancora melodie struggenti di violini accompagnano l’intenso finale di “Morning Rise” brano nel quale la sensibilità romantica degli Whipping Boy può trovare pieno e libero sfogo in una profonda e sublime speranza d’amore.
Non potrebbe esserci finale più adatto; ma i ragazzi di Dublino non vogliono perdere il filo con il passato ed ecco così la (quasi) ghost track “A Natural”, vero e proprio reverente omaggio ai loro eroi newyorkesi, inizialmente quelli di “The Gift” o di “The Murder Mistery” e infine quelli distorti e dissonanti di Heroin. Ora è veramente finita, anche se le emozioni accumulate resteranno a lungo, a compensarci anche dello scioglimento del gruppo, avvenuto nel 2000, dopo litigi, tensioni ed un terzo, deludente, album. E con la convinzione che con un po’ più di buona sorte adesso potrebbero essere là, insieme a Editors e Interpol, a rinverdire, anche loro, i fasti del post punk.
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