Xiu Xiu
Dear God, I Hate Myself
Pare proprio che Morgan a Sanremo non ci sarà. Non che la cosa mi tolga il sonno, anzi trovo abbastanza normale che un vero musicista non venga accettato a Sanremo, ma tutta la vicenda mi ha fatto sorridere. Questo povero diavolo che prova a far parlare un po’ di sé proponendosi come il Jim Morrison della Brianza (o il Kurt Cobain di Rai 2, fate voi) e finisce a testa bassa a pregare il vicario di Cristo, ovvero Bruno Vespa (mentre Cristo - sappiamo tutti chi è - ha altro da fare) di aiutarlo per aver fallito laddove un Povia qualunque ottiene ogni anno splendidi risultati. Anche perché non so voi, ma io alle rockstar “maledette” ho sempre creduto poco. La musica, chiunque abbia mai provato a studiarla ne converrà, è disciplina oltremodo complessa, per molti versi geometrica, schematica, rigida. Anche quei musicisti che hanno deciso di romperne lo schematismo hanno sempre avuto bisogno – ovviamente – di conoscerlo a fondo, di studiarlo per poterne intuire i punti sui quali fare leva. Penso al free-jazz, ma anche al noise, all’art-rock.
Per questo motivo ho sempre trovato inconciliabile la necessità di questo “studio” (anche minimo) propedeutico alla creazione musicale, con il clichè onnipresente del musicista non solo eccentrico ma definitivamente pazzo, malato quando non addirittura violento, alienato o chissà cos’altro. Gli esempi sono infiniti, e se per alcuni ci sono cartelle cliniche (Daniel Johnston) o elementi inconfutabili (Moondog) a testimoniarne la genuina “stravaganza”, per altri il dubbio di avere di fronte un’ennesima “Rock ‘n Roll swindle” è evidente: penso alla coprofagia di Mike Patton, alle bizze dei Guns n’ Roses, agli autolesionismi del punk (avete mai visto un video di G.G. Allin?), all’isteria di Trent Reznor e ai vari fenomeni del sempre nutrito baraccone satanista.
Prendete Jamie Stewart, ad esempio. Fin dall’esordio (quel capolavoro che fu “Knife Play” – anno di grazia 2002) ha sempre trattato temi “difficili” (solitudine, suicidio, difficoltà di comunicazione), utilizzando immagini discutibili (la prima – orripilante – copertina di “A promise” del 2003) e sonorizzando il tutto con una cruda forma di new wave ricca di allucinazioni terrificanti ed aride confluenze folk. Il dubbio che “ci facesse” era forte. Poi un giorno, non molto tempo fa, andai a vederlo dal vivo in un piccolo club torinese. È un omino non troppo alto, dall’apparenza decisamente ordinaria. Salì sul palco e attaccò a suonare gettando pochi sguardi alla cugina Caralee McElroy (ex tastierista/polistrumentista, attualmente in forze ai Cold Cave), qualcuno a quel bestione di Ches Smith (batterista dalle braccia chilometriche) e praticamente nessuno alla platea. Detta platea (torinese, universitaria, “aperitivesca”) reagì con altrettanto disinteresse, rumoreggiando e vociando in maniera zotica per tutta la durata del concerto. Il risultato fu che dopo meno di un’ora, Mr Xiu Xiu posò stizzito la chitarra, sfanculò il pubblico borbottando qualcosa di incomprensibile e se ne andò. Un giovane efebico vicino a me mi guardò e riuscì solo a chiedermi, sbalordito: “Ma aveva un cazzo disegnato sui jeans?”. Ed io, solenne: “Sì, ed era pure eiaculante”. Ne dedussi che l’atteggiamento “inquietante” di Stewart – voluto o genuino che fosse - aveva colpito nel segno.
E allora non mi spiego (si fa per dire) perché questo pazzo maniaco e depresso riesca puntualmente a sfornare canzoni eccellenti in ogni album. Anche in questo “Dear God I Hate Myself” (titolo che fomenta i miei dubbi, oltre che ricordami da vicino un altro titolo famoso, “I Hate Myself And I Want To Die”) che esce a due anni dal precedente “Women as Lovers”, ne piazza almeno quattro: l’iniziale “Gray Death”, folk gotico condotto dal binomio synth-chitarra acustica e spezzato da due efficacissimi bridge “sopra le righe”. “House Sparrow”, danza funebre carica di pathos e rimandi ai Joy Division, dedicata a Richard Trenton Chase, serial killer paranoide e schizofrenico noto come “il Vampiro di Sacramento” per la sua mania di ingerire ed iniettarsi nelle vene sangue animale ed umano (ci risiamo). “Falkland Rd”, brano eccellente costruito su bassi immensi e negatività insostenibile, e la successiva “The Fabrizio Palumbo Retaliation”, il cui titolo cita il torinese Fabrizio Modenese Palumbo (membro dei Larsen e del progetto XXL, che coinvolge anche Jamie Stewart) e si rivela come la canzone più “Xiu Xiu” del disco: gothic-pop abrasivo e marziale non privo di quegli elementi disturbanti e “free” che hanno reso celebre la band di San Josè.
Quattro canzoni eccellenti, nei quali gli Xiu Xiu acquisiscono compattezza e – si dirà – “ascoltabilità”, rinunciando alle derive rumoristiche, ambient e sperimentali tipiche dei loro precedenti lavori per abbracciare un suono più conciso (i brani durano mediamente due minuti e mezzo) ma anche maggiormente a fuoco.
Certo, come avviene in alcuni episodi della ormai nutrita discografia della band (con questo siamo a quota sette), se è vero che mediamente il livello si mantiene alto (bella la sezione centrale, con il ritmo sostenuto della title track in risposta alle atmosfere cameristiche e oscure di “Hyunhye's Theme”), è altrettanto vero come alcuni momenti siano furbo autocompiacimento (le filastrocche ruffiane “Chocolate Makes You Happy” e “This Too Shall Pass Away (For Freddy)” sono gradevoli ma mostrano immediatamente la corda), altri si propongano come curiose digressioni (il banjo di “Cumberland Gap”) ed altri ancora (“Apple For a Brain”, “Secret Motel”) mostrino i limiti di essere state composte per mezzo di un Nintendo DS (cosa?).
Che ci volete fare, il genio e la sregolatezza non si disegnano solo sui pantaloni.
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