Area
Arbeit Macht Frei
Arbeit Macht Frei (il lavoro rende liberi) era la scritta che i deportati ebrei potevano leggere una volta giunti ai cancelli del terribile campo di sterminio di Auschwitz. Si trattava di un macabro, sadico, e sfacciato monito per coloro che una volta entrati, non sarebbero affatto stati “liberati” dal lavoro, bensì, per la maggior parte di essi, dalla morte. Arbeit Macht Frei diventa così il simbolo della violenza subita, una violenza terribile e indiscriminata ma celata da intenti buonistici e purificatori.
Difficile concepire qualcosa di più orribile.
Ma passiamo al 1973, anno di uscita dell’album degli Area.
Il lavoro rende liberi, ora, oltre a riportare alla mente quei tragici eventi, viene ad assumere una nuova connotazione: il ’68 era passato da poco e ci si preparava al ’77, erano anni di lotte studentesche ed operaie, di critiche serrate al capitalismo, ai suoi valori borghesi, alla sua morale e alle sue istituzioni. Erano gli anni delle avanguardie e dei tentativi (pragmatici ed intellettuali) di creare un mondo nuovo.
Qui si collocano gli Area.
La loro musica è un atto consapevole di avanguardia, musicale ma anche politica. Il pensiero gramsciano di “egemonia culturale” sembra quanto mai adatto ad inserire l’opera in un preciso contesto e in un determinato progetto: la rivoluzione deve essere attuata in primo luogo in ambito culturale, facendo diventare egemoni nuovi valori, nuovi costumi, nuove ideologie, e solo a questo punto si potrà passare alla presa del potere.
Arbeit Macht Frei, di questo “international POPular group” esprime proprio questa volontà di radicalizzazione delle arti.
Per un’esperienza musicale (visto che è questo di cui ci stiamo occupando) davvero notevole.
Se il punto di partenza è il progressive rock, il punto di arrivo vuole essere un modo originale di interpretarlo, cosa che viene attuata grazie ad una sua rivisitazione in senso free-jazz sperimentale.
In Luglio, agosto, settembre (nero), una preghiera araba apre le danze, affidate a melodie a metà tra il popolare/gitano/arabeggiante ed il progressive rock. La voce di Demetrio Stratos, una delle più originali del rock italiano, solca questo brano con le sue declamazioni politiche ed ideologiche irrobustite dal suo timbro potente e sfrenato. Il tema iniziale è diviso a metà da un momento altamente sperimentale di chiara matrice free-jazz, dominata da sax, percussioni anarchiche e gorgheggi fuori controllo.
Ed ecco la title track, dall’introduzione affidata a sommessi e raffinati giochi percussionistici, eseguiti da Giulio Capiozzo, che si concretizzano con l’arrivo degli altri elementi in sonorità sempre più distintamente jazz, facendosi capaci di comunicarci un’irresistibile voglia di movimento e spensieratezza. All’arrivo del tema principale ecco che spunta la magnifica voce di Stratos, ora rabbiosa ora trascinata, ora lanciata in coraggiosi esercizi stilistici e gorgheggi a livelli eccezionali. Si tratta di un continuo aggiungersi di elementi, in grado di non lasciar mai al tema portante il tempo di stabilizzarsi e sedimentarsi.
Consapevolezza riprende e sviluppa ulteriormente le fusioni tra rock progressivo e jazz-rock, sempre in bilico tra improvvisazione e chiara volontà progettuale. Chitarre e organetto si fanno qui un po’ più ‘60s, per poi lanciarsi in veloci e coinvolgenti fughe di impronta Yes-iana e a rallentamenti jazzistici alla John Coltrane.
Le Labbra Del Tempo lasciano che sia la voce, accompagnata fedelmente dal sax, a costruire la prima parte, destinata a svilupparsi, appunto, progressivamente, in sempre più raffinati interventi strumentali e arditi slanci canori. Le destrezze ritmiche della batteria sostengono magistralmente lo stacco strumentale e sperimentale della parte centrale del brano, impegnata in un crescendo che infine si dissolve con il ritorno della voce, che con un’altra splendida dimostrazione virtuosistica inaugura la conclusione dalla esplosività liberatoria e senza freni.
240 Chilometri Da Smirne è l’unico brano strumentale, ancora una volta imperniato su voluti canoni free-jazz arricchiti da una pregnante sensibilità progressive.
L’abbattimento Dello Zeppelin offre la dosa più massiccia di avanguardia, in un continuo alternarsi di crescendo e diminuendo, tra sintetizzatori ed effetti elettronici prog, assoli di chitarra rock e fughe jazz, il tutto immerso in un’atmosfera rarefatta e a rimandi alla figura di Tim Buckley, soprattutto per quanto riguarda il lato vocale.
Finisce così un disco dal valore immenso, degno di essere annoverato tra i capolavori europei del periodo, e apice assoluto delle ricerche artistiche dell’Italia dei primi anni ’70.
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