Camel
Moonmadness
Il progressive-rock è una trappola: lo ami quando non vuoi sentire altro, lo odi quando ti accorgi che non conosci altro. Prendetela come una sorta di fase adolescenziale, uno step verso una più ampia concezione e visione della musica; per alcuni lo stesso discorso si potrebbe fare per il metal.
Questo perchè si abbandonano le sonorità facilotte del commerciale e se ne abbracciano di più particolari e articolate. Allora inizia la scoperta della buona musica, la cosiddetta "aurora culturale" del giovane che decide, finalmente, di aprire i propri orizzonti. E si ascoltano i Pink Floyd, i Genesis, gli Emerson Lake & Palmer, i Caravan, i Family, il Banco del Mutuo Soccorso, La Locanda delle Fate e cosi via. Non cito fra questi i King Crimson: erroneamente marchiato a fuoco come una prog-band, il Re Cremisi dev'essere considerato piuttosto come un'introspezione musicale, un viaggo attraverso lo spazio alla ricerca di luci e stelle e meteore e pianeti e costellazioni che hanno ridefinito il concetto stesso di sostanza sonora.
Il prog-rock è però anche fango, anzi no, sabbie mobili: ci trascina inesorabilmente verso il basso, verso il centro della terra, progressivamente, facendoci perdere di vista la giungla di meraviglie artistiche che abbiamo intorno e che ancora non abbiamo avuto modo di adorare.
Fondamentale per uscire da queste sabbie mobili è aggrapparsi ai rami di altri generi musicali.
"Moonmadness", fortunatamente, è la giungla e le sabbie mobili insieme: un'esplosione di suoni sempreverdi, sempre freschi, mai buttati là tanto per fare numero. Un uso massiccio delle tastiere e delle chitarre; una voce leggera, filtrata, ventilata, soffiata; e poi il flauto, le percussioni, il basso: l'eterogenea colorazione di un quadro struggente, delicato, bellissimo.
L'introduzione è affidata ad "Aristillus", prepotente monologo degli organi che spiazza l'ascoltatore per aggressività. Ma è solo un "Mirage". Il resto dell'album scorre via dolce, incantevole... incantato. Tocca a "Song within a song", inno al sogno e alla notte. Non a caso l'atmosfera si fa soffusa, lounge diremmo, accompagnata dal suono delicato di flauto e tastiere; da metà in poi il ritmo diventa più sostenuto, pur lasciando spazio agl'intimi assoli di tastiera di Bardens.
"Chord Change" è lo specchio inverso della precedente: acceso nel prima parte, il sound evolve trasformandosi in una rallentata sonata simil jazz. Sul finire, il ritmo torna a essere scandito dalla batteria fino a dissolversi lentamente nel nulla. Viene poi "Spirit of the Water", brevissima ballata d'intermezzo costruita unicamente sulle note del pianoforte e del flauto traverso, filtrata dagli echi di una voce, quella di Latimer, che ci giunge lontana e ovattata. Straripamenti folk all'aria aperta.
Eccoci arrivati alla parte clou del disco: "Another Night", "Air born", "Lunar Sea". La prima, decisamente evoluta e fuori dal tempo per composizione, svela un incedere ritmico quasi marziale, seguito da dilatazioni ambient delle tastiere e ritornelli per la voce che sottolineano la natura intrinsecamente cupa e lamentosa del brano. Chiude il tutto un buono, anche se scontato, assolo di chitarra di Latimer. "Air born", chiave di volta dell'intera opera: quella che sorprende è soprattutto la coesione di stumenti e voce, qui plasmati insieme in un tutt'uno di fluente e incantevole melodia. Di notevole impatto l'introduzione favoleggiante del flauto e del pianoforte e la ripresa armoniosa della chitarra. Da qui in poi, la voce: un filo di seta sospeso tra Terra e Luna, un collegamento etereo tra definito e indefinito. Emozioni al rallentatore.
"Lunar Sea" è l'ultima gemma del forziere. Sono le tastiere, ancora una volta, a calarci in un'atmosfera da sogno, oltre i margini del mondo, distesi su un letto spaziale. Dondolati in questo universo, finiamo per essere sopraffatti dall'assolo jazz di Latimer e Ward: un duetto il loro (chitarra e batteria) davvero evocativo. Dopo questa immersione stellare, veniamo riportati sulla Terra dalle tastiere, allo stesso modo di come ci avevano condotto fuori dal tempo e dallo spazio.
Finisce "Moonmadness", finisce il prog. Ci troviamo infatti nel 1976, all'alba d'un tramonto che vedrà porre fine per sempre a un ciclo musicale che è stato causa stessa del proprio male. Ma non tutto andrà perduto: molteplici saranno le influenze e i riadattamenti che vedranno risorgere più e più volte il prog-rock, anche se con vesti, nomi e soprattutto risultati diversi.
Il mio consiglio è quello di chiudere a chiave quest'opera d'arte dentro un cassetto, cosi da poterlo riaprire in un momento di dolce-amara nostalgia.
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