David Gilmour
On An Island
Il grande chitarrista di Cambridge ha pubblicato solo tre dischi a suo nome. Il primo (e migliore) nel 1978, sulla spinta del materiale di sua composizione che gli si stava accumulando, visto che il socio Roger Waters aveva da qualche anno preso e preteso di fare quasi tutto da solo nei Pink Floyd; il secondo nel 1984, nel tentativo, poi abortito, di lanciarsi in una carriera solista all’indomani dell’abbandono di Waters e del “congelamento” del gruppo.
Quest’opera invece non cela alcuna importante urgenza emotiva. Gilmour è qui nient’altro che un sessantenne appagato: due matrimoni, otto figli (uno in adozione), un conto in banca spaventevole, la stima incondizionata di quasi tutti, specie se addetti ai lavori (impossibile trovare un chitarrista che non apprezzi lo zio Dave), i furibondi contrasti con Waters ormai persi nel tempo, come lacrime nella pioggia.
E così il sentimento che esprime quest’album al primo ascolto è la noia. Una solare, distesa, serena noia, tipo quella di certi pomeriggi estivi, quando ci si perde sotto gli alberi a farsi frastornare dalle cicale, senza la voglia e la possibilità di fare altro, per il troppo caldo, la troppa luce. Non per niente titolo, copertina e strumentale d’apertura celebrano Kastellorizo, l’assolata isoletta greca immersa nell’azzurro mare ed immortalata anche da un film premio Oscar.
La chitarra di Gilmour, con i consueti suoni molto curati e riverberati, indugia pigra e sorniona per tutto il disco, a mezzo dei tipici, semplici ma gustosi clichées, eseguiti con il proverbiale tocco e la copiosa musicalità che hanno reso gloria imperitura all’ormai canuto musicista. La sua voce, inconfondibile e terribilmente pinkfloydiana, ha perso ormai sensibilmente spessore e potenza, ma resta comunque fascinosa e avvolgente.
Al terzo, quarto ascolto dell’opera, la solare noia di cui si diceva comincia ad essere messa decentemente in ombra dalle squisitezze sonore e melodiche sparse qua e là. Quello che all’inizio pareva essere quasi un disco fra i più inutili viene ad assumere la sua dignità di maturo, diciamo pure senile artigianato. E spunta poi fuori quello che è forse il frammento più emozionante nel mix di queste musiche: anche alla luce della sua ancor recente dipartita da questo mondo, scalda veramente il cuore l’ascolto del quieto pianetto di Richard Wright, col suo inconfondibile modo un poco jazz e un poco snob di prendere gli accordi ed i rivolti. Sembrano vere schegge di “More” e di “Atom Heart Mother” certi suoi passaggi pianistici ed organistici in queste nuove canzoni dell’amico, e ci fanno ricordare quanto lo stile e l’immaginario artistico di questo musicista abbiano contribuito ad edificare il mito floydiano.
Cosicché, adottando l’accortezza di mutare la predisposizione d’ascolto ad una forma vagamente new age, la dignità ed onesta piacevolezza di questo lavoro vengono ad essere sviscerate e preservate. Solo aggettivi moderatamente positivi da poter spendere quindi, che il passato remoto è invece testimone di quali altissime vette di intensità la chitarra e la voce di questo signore sono stati capaci di comunicare..
Una buona occasione insomma, questo disco, per disputare ancora dell’unico e riconosciuto limite di questo gigante del rock, quello di saper fare grande musica… per la musica stessa e basta, in forme suadenti e limpide ma altresì carenti di un background concettuale, di uno spessore culturale che scavi più profondamente nell’involucro sonoro e nel nostro senso del piacere, e ci inondi di vibrazioni più ancestrali, di turbamenti più vitali. Non per niente Gilmour ha rinunciato del tutto, e da tempo, a mettere le mani sulla parte testuale delle sue composizioni (qui, ci pensa sua moglie Polly Samson).
Tutto va perdonato a David Gilmour, una persona che non se la tira e non bara con se stesso e con gli altri (ora… perché con l’ultima stagione dei Pink Floyd, quelli senza Waters, in effetti ci ha invece marciato parecchio). Questo ha da dare in quest’ultima parte di carriera, un quieto e professionale lamento di chitarra e di voce, un’innocua ed elegante musica a costante rischio di tedio, appena si cessa di aguzzare le orecchie per coglierne le squisite sfumature. Niente di importante perciò, ma grazie lo stesso, zio Dave.
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