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R Recensione

6,5/10

La Batteria

Tossico Amore

Ne ha pure scritta una di colonna sonora, Omar Rodríguez-López, per El Búfalo de la Noche di Jorge Hernández Aldana (2007), prima ancora di mettersi egli stesso dietro la macchina da presa (The Sentimental Engine Slayer, 2010). E ci mancherebbe altro: come se non spuntasse fuori il tarlo della soundtrack, in una discografia solista che tocca i ventotto titoli – con altri dodici (!) annunciati da qui fino al 16 dicembre. Eppure, riuscite ad immaginarvi una collaborazione tra lui e Claudio Caligari? Fate le debite proporzioni. Da una parte il chitarrista ipertrofico di Mars Volta, Antemasque e Bosnian Rainbows, dall’altra il compianto regista, autore di appena tre lungometraggi in trentadue anni. Filosofie opposte, garanzia di incomunicabilità. La differenza, in questo come in altri casi, sta nel peso specifico delle relative produzioni. Sarebbe bastato girare il solo Amore Tossico (1983), l’ultima vera pellicola neorealista italiana, per consegnarsi alla leggenda: Caligari replicò invece con L’odore della notte (1998) e, soprattutto, con l’intensissimo Non essere cattivo (2015). Ogni frame della sua avventura cinematografica appare straordinariamente gravido di significato, firma del suo credo estetico e sociale, della sua arte in quanto tale. C’è qualcuno che possa dire lo stesso di Rodríguez-López, che sia capace di trattenere nella memoria anche solo una minima parte dei milioni di note scaraventate in faccia all’ascoltatore? 

No, ben difficilmente Omar Rodríguez-López avrebbe potuto lavorare con Claudio Caligari. E pensare che, all’epoca, la scelta dell’autore della soundtrack di Amore Tossico era comunque caduta su di un nome non meno atipico. Con gli anni d’oro dei grandi compositori (Rota, Piccioni, Umiliani, Alessandroni, Ortolani, Cipriani, Micalizzi, Bacalov, Ferrio, Frizzi, il maestro Morricone e via dicendo) ormai lasciati alle spalle, per un motivo o per l’altro, non dev’essere stato semplice capire a chi affidare il commento strumentale di una pellicola così atipica per l’industria italiana del tempo. Quasi ce lo si immagina, il cineasta di Arona, fatalmente corrucciato, a scorrere il girato, nel tentativo di abbinare immagine e suono… Si arrivò, infine, a Detto Mariano, un nome di secondo piano, legato a note produzioni di musica leggera (da Celentano in avanti la lista è folta) e firmatario di colonne sonore per commedie scollacciate di modeste pretese. Con l’ausilio di un Fairlight Series IIX, una macchina antidiluviana che, agli albori degli Eighties, doveva sembrare un autentico prodigio tecnologico, Mariano realizzò tutta una serie di brevi temi conclusi in loro stessi e passati allo scrupoloso vaglio del regista e di un esperto di droghe (il cui ruolo, come affermò lo stesso compositore, “era quello di appurare se le mie musiche corrispondevano all’effetto che le droghe facevano a chi le assumeva”). Ne nacque una tessitura avveniristica e spigolosa, energica e melodica, ma lontanissima da ogni stucchevolezza, tra folleggiamenti electro-prog e stranezze robot-funk: una nuova codifica del verbo dei Goblin verso sponde caricate di maggior sintetismo.

Ad un anno dalla prematura scomparsa di Caligari, i tipi della Penny Records rendono disponibile l’imponente lavoro di Mariano, in vinile rosso sangue corredato di cd e della locandina originale del lungometraggio. Contestualmente, il collettivo romano La Batteria si lancia nel più coraggioso dei tentativi: reinterpretare la soundtrack su di un asse maggiormente analogico, riportando l’estetica della library al centro del villaggio e donando nuova linfa a musiche rimaste per molto tempo nell’ombra. Se pure avevamo manifestato tutte le nostre riserve verso le inevitabili criticità che si portava appresso il self debut dello scorso anno, l’onestà intellettuale non ci impedisce di ammettere che – per capacità tecniche e amore per la materia – La Batteria si situa un gradino sopra anche ai celebratissimi Calibro 35. “Tossico Amore” è il terreno ideale per apprezzare la freschezza e la coesione del gruppo: sfilano, in brevissimo tempo, il sontuoso battesimo criptosacrale per Farfisa e tastiera di “M1” (con chitarre crepuscolari a struggersi in isolamento), l’imponente head prog di “M2” (frizionata con generose dosi di Carpenter), l’oleoso carillon di “M11” e il numerone black di “M17”, dal groove disco-funk assolutamente devastante. Nel mezzo, pregevoli raccordi: il main theme che si fa carezza acustica a capella in “M35”, la mina vagante fuzz di “M29” (qui le sei corde si fanno lame gotiche à la Black Widow), la fata morgana elegiaca di “M3” e la sospensione futuristico-ambientale di “M21”.

Gran bella prova ed omaggio doveroso ad un gioiello assoluto della nostra cinematografia. Possa esserti lieve questa terra, Claudio.

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Dr.Paul 6,5/10

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